HOME - RACCONTI - STORIA - DANTA DI IERI - VITA DI PAESE - RITRATTI - PASSATEMPI - GALLERIA - ARTICOLI

Storia

Lotte interne nel territorio del Comelico, l'urbanistica del paese ed altro ancora viene raccolto in questa sezione ricca di fatti esposti con chiarezza e documentati, dove è stato possibile, dai verbali delle delibere di Giunta del Comune e da antichi documenti.

IL LAUDO DI DANTA

Il primo laudo di Danta, scritto certamente in latino, risale al milletrecento circa. Nel 1575 "per la vecchiezza distrutto e rovinato,....considerando debba essere riformato et rinnovato per comune utilità e buon governo e quiete della stessa Villa et Regola di Danta", viene sostituito dall'unico di cui si conserva copia. Inizia così:
Nel nome di Cristo. Amen. L'anno di Nostra Salute Millecinquecento settanta cinque, 1575. Indizione terza. Il dì veramente 11 del mese di marzo nella Villa di Candide di Comelico, in casa di me infrascritto Nodaro, et ivi: Sig.r Bortoluzzo di Madalino Merico della Villa di Danta, e Regola così detta di Comelico, Sr. Odorico qm.Valentino d'Adamo di Menia Sr.Giovanni qm.Antonio di Colluto, suoi Laudatori e Mistro Pietro de Menia, Antonio qm.Pietro de Monte e Pietro Doriguzzi Deputati della istessa Regola di Danta.....hanno voluto e ordinato e costituito gli infrascritti Laudi Ordinazioni e costituzioni i quali e le quali intendano che dai Regolieri della stessa Villa e Regola di Danta con ogni miglior modo siano osservati e conservati. Il laudo stabilisce che: "nella festa di S.Giorgio (23 aprile) si tenga favola nel luoco solito di Danta "ed ogni regoliere debba parteciparvi senza avvisi; se il Merico in carica non vi partecipi "sia condannato a pagare al Comune e Regola in soldi 20 de piccoli; nello stesso modo, i Laudatori soldi 15, li saltari soldi 10, il Regoliere soldi 5 ". Nello stesso giorno dovranno essere eletti il Merico" di buona condizione e fama" ed i due Laudatori; rifiutando la carica pagheranno rispettivamente 5 soldi e 4 soldi ciascuno essendo "pure tenuti ad esercitar il medesimo officio". Verranno eletti anche "due Saltari i quali debbano per Ruolo fare ed esercitare gli atti d'essa Regola; rifiutando d'accettare tal impegno siano condannati in soldi 45 e nulla meno sieno tenuti d'accettare detta carica"; nello stesso giorno "sia eletto il Giurato di Chiesa del Venerando lume di S. Fabiano e Sebastiano col giuramento di fare cose utili a pro del Lume e l'obbligo a render e far li conti della sua amministrazione avanti il Merico e Laudadori".
Il laudo prosegue poi nell'elencazione degli obblighi relativi al pascolo del bestiame sui prati della Regola, alle ammende per gli abusivi e per chi si avventurasse "fuori di strada pubblica". L'appartenenza di Danta alla diocesi di Aquileia è evidenziata con bovi o altri animali in uno dei punti di tale laudo: Nella festività dei santi Ermagora e Fortunato, patroni della città, "nessuno d'essa villa di Danta ardisca a lavorare o far lavorare" pena le citate condanne in denaro. Viene poi richiamato l'obbligo di "congregare la favola nel Luoco solito di Danta nella vigilia di S.Michele del mese di settembre .....e se alcuno in detta Regola si sentirà aggravato o lamentasse del Merico o Regola di Danta possa e voglia quel tale così aggravato appellarsi alla favola Piedo e non ad altro luogo". Ultimo obbligo: "Ogni Regoliero sia obbligato subito dopo la festa della Cattedra di S.Pietro (18 di gennaio) porre gli anelli ai Porzi animali suini e quello che contraffarà sia condannato in soldi 5 al Merico". Vengono definiti i confini: "La Regola di Danta confina a mattina in Regola Casada e a mezzodì in Regola di S.Stefano, a sera in monte Pontigo et a nulla ora in Regola o Comune di Candide". Il Laudo di Danta di Cadore (G.Fabbiani-Tipografia Castaldi-Feltre-1982) è stato dallo stesso rivisto e depurato di errori di trascrizione dal latino all'italiano o nel ricopiarlo in successive fasi. In fondo ad esso, in due documenti scritti in latino, con la stessa data dell'undici marzo 1575 lo stesso notaio Giovanni Gera chiama il nostro paese ANTA e DANTA:
"Premissas deliberationes sive Laudum Regolae de Anta Comelici......; Villae et Regulae de Danta Comelici.....; Deputati ab ipsa Regula et Ville de Anta cum viderent laudum ipsius Regulae et Villae de Anta.....; sive Laudum Regula Anta Comelici; Regula de Anta terminet a mane....." Evidentemente, all'epoca, dal nome ANTA si stava passando a quello di DANTA.
indice
SALTARI = guardie boschive
LAUDATORI = odierni assessori
FABULA = Consiglio, ma anche Territorio
FONTICO = magazzino dei cereali, delle biade
MASSARO = tesoriere, cassiere
PUBBLICO o UNIVERSITA' = Comune
RODOLO = turno nell'assunzione di cariche

I PROMISCUI DI VAL VISDENDE

INNANZI ALLA ECC.ma CORTE DI CASSAZIONE di FIRENZE RICORRONO

Menia Liberale, Mattea Fortunato, Tosi Isidoro ed altri, tutti di Danta e Doriguzzi Luigi quale sindaco del comune di Danta per la frazione Mezza Danta di Sotto, rappresentati dall'avv.Augusto De Bettin di Belluno - contro:
1) Il Comune di S.Pietro e sue quattro Frazioni di Costalta, S.Pietro, Presenaio e Valle, nonché contro le stesse 4 frazioni;
contro:
2) Il Comune di S.Stefano e le due Frazioni di Casada e Costalissoio
E le due Frazioni di S.Stefano e Campolongo
PER CASSAZIONE
della sentenza 5-21 1913 della Corte d'Appello di Firenze,in sede di rinvio, non notificata.
Fatto
(vedi documento)

In seguito alla costituzione del Comune di Danta i consorti Doriguzzi e Maddalin da una parte ed i Menia, Mattea e Tosi dall'altra, conservarono ancora i loro diritti regolieri nei comuni di cui prima facevano parte.
Non venne però loro contemporaneamente garantito - in rapporto ai " fuochi " da loro rappresentati nel nuovo comune - quel diritto d'utilizzo di prati, boschi e malghe mai loro negato nei comuni cui appartenevano precedentemente.
L'unico modo per far valere le proprie ragioni fu quello di costituirsi in Regola e, nel frattempo, formare dei comitati che li rappresentassero nelle varie sedi in difesa dei loro diritti.
La Regola dei Doriguzzi e Maddalin non verrà mai attivata perché i loro beni, al momento della costituzione del Comune di Danta, non riguardava più i boschi, ma solo i pascoli e la malga di Melin. Infatti, con la convenzione del 1792, che stabiliva per le due Casate "L'uso eterno di tali pascoli" aveva termine la vertenza tra il Comune di S.Nicolò e sue Regole e quello di Danta il quale non dovrà più sottostare ad alcuna spesa per Melin, ma solo controllare che le famiglie-da lui rappresentate- rispettino i limiti segnati in tale convenzione. Tuttavia, ancora nel febbraio del 1956, Danta dovrà richiamare proprio questa convenzione per far recedere S.Nicolò dalla richiesta di contribuire a spese sostenute per Melin. Invece per i Menia - Mattea e Tosi che - nei confronti del Comune di S.Stefano e sue Regole - vantavano diritti sui "Beni promiscui " in Val Visdende e su Dignàs, si iniziarono cause che, nonostante numerose pronunce a loro favorevoli, ebbero esito positivo solo dopo la definitiva sentenza della Corte di Cassazione di Firenze. che cassava la 5-21 del 1913 della Corte d'Appello della stressa città.
Ci sarà infatti una prima sentenza del tribunale nell'aprile 1875 che riconoscerà ai Menia-Mattea-Tosi, Consorti di Mezza Danta di Sotto, di esserne comproprietari "Uti cives" e non "uti singoli" insieme alle popolazioni dell'antico Comune di Casada.
Ci vorranno però altri 175 anni e tanti altri compromessi, "sentenze arbitramentali" e Cause negli anni: 1878 ,1892 , 1899 , 1902 , 1903 , 1906 ,1910, 1911, 1913.,1914 per ottenere il definitivo riconoscimento dei diritti dei Consorti dantini. La prima guerra mondiale, il periodo fascista che disconobbe le Regole e la seconda guerra mondiale crearono il silenzio inoperativo sui "Beni Promiscui".
Soltanto molto tempo dopo, negli anni cinquanta, interverrà un accordo tra le Frazioni dei Comuni di San Pietro e Santo Stefano ed il Comune di Danta rappresentante dei Consorti Menia-Mattea- Tosi per definire i confini delle proprietà a questi assegnate e quantificare l'importo loro dovuto per il secolare utilizzo dei proventi boschivi su territorio promiscuo. La pacifica soluzione della vertenza venne favorita dalla fattiva opera di mediazione da parte del Generale della Forestale Giovanni Doriguzzi Bozzo, uno dei principali fautori per la ricostituzione delle Regole ed il loro riconoscimento con legge dello Stato.

indice
Originale della prima pagina del ricorso - cliccare sull'immagine

MELIN = Uso eterno per pascolo a Doriguzzi e Maddalin

L SUMITERIO VECIO

Puece pué rcordaslo incuei, dopo ch l'è sto slargiò na prima e na sconda ota dendo in su verso santa Barbora. La parte pì vecia è rstada senpro chela ch te t cetea apena ch t dea inze: la strada in medo e, ai late, tonbe zla tera; in fonde ala strada, la cesola cu la tonba d Pre Santo e, a fianco, l'osario. T vdea solo cros d len cun scrito niente autro ch al nome e cognome e t colpìa l vede cl puece lapide e soralduto l doe, cuas tacade, sula destra, dopo la mtà dal sumiterio: una portéa i nome di chi Doriguze ch avea cedù l taren e in canbio s'avè tignù cal posto pr bete senpro ilò i so morte; cl'autra era de n nos pre:don Domenico Bastianel Menia morto ncamò doign. Da cla stesa parte, ma su in auto, a destra, sot al muro d sostegno, era l tonbute di canai pizi e su calchduna t vdea ncamò na crosuta cul solo nome. Salvo chelch fresa, era dsmentiede, trascurede, cu l'erba intorne. Su chele di greign inveze n t vdea erbaze, zntuél u roba secia ch scondéa la terra: gné ntade cuan ch i dea a n funeral u dla domenia dopo na mesa.L cros d len avè però puecia durada e tante ote, pr cetà na tonba u savei chi ch'era ilò sote, bisognè rifeise ai parente ch t vdea intorne parchiè ch n'esistea nanche i numre pr identificala. St'aparenza d abandon dal sumiterio era però contrasigneda dal continuo rcordo di so morte cun tant mese ordinade e continue oferte a convente e gedie. La cura dal sumiterio gné dopo d chela pr l'anma!
IL CIMITERO VECCHIO

Pochi possono ricordarselo oggi, dopo che esso è stato allargato una prima ed una seconda volta ampliandolo in su verso santa Barbara. La parte più vecchia è rimasta sempre quella che ti si presentava appena tu ci entrava: la strada in mezzo e, ai lati, le tombe nella terra; in fondo alla strada, la cappelletta con la tomba di Pre Santo e, a fianco, l'ossario. Vedevi solo delle croci di legno, con su scritto nient'altro che il nome ed il cognome e ti colpiva il vedere quelle poche lapidi e, soprattutto, le due quasi attaccate, sulla destra, dopo la metà del cimitero; su di una c'erano i nomi di quei Doriguzzi che ne avevano ceduto il terreno ed in cambio s'erano riservati il diritto si seppelire sempre lì i propri morti; quell'altra era di un nostro sacerdote, don Domenico Menia Bastianel, morto in ancor giovane età. Da quella stessa parte, ma nella parte alta, su in alto, sulla destra, sotto il muro di sostegno, c'erano le piccole tombe dei bambini e su qualcuna di queste vedevi ancora qualche piccola croce con scritto solo il nome. Eccetto qualcuna di recente sepoltura, eran dimenticate, trascurate, con l'erba attorno. Su quelle dei grandi invece non vedevi erbacce, o cose secche che nascondevano la terra; venivano pulite quando la gente partecipava ai funerali oppure di domenica dopo una messa. Le croci di legno avevano però una durata limitata e tante volte, per trovare una tomba o per sapere chi sia sepolto lì sotto, bisognava rifarsi ai parenti che vedevi intorno perchè non esistevano neppure i numeri per identificarla. Questa apparenza di abbandono del cimitero era però contrassegnata dal continuo ricordo dei propri morti con tante messe ordinate e continue offerte di suffragio a conventi e chiese. La cura del cimitero veniva dopo di quella per l'anima!
indice

IL CAMPANILE DI LEGNO

Il campanile in legno - su proposta di Giuseppe Menia Tamon fu Leonardo

PROCEDURE ED ESITO DELL'INIZIATIVA

Con delibera n. 126 dell' 11 dicembre 1888, il Consiglio Comunale di Danta inizia il travagliato lungo viaggio per giungere alla costruzione di un campanile in pietra al fine di sistemare le campane, da tempo abbandonate a terra a seguito della pericolosità di quello esistente. Decine di successive altre deliberazioni, motivate dalla necessità di dar lavoro ai troppi disoccupati del paese impegnandoli alla preparazione delle pietre necessarie per la costruzione del campanile, vengono sempre respinte dal Commissario Distrettuale o dal Prefetto. Solo quattro anni dopo, un artigiano di Danta, ma residente in Santo Stefano, lancia l'idea di un campanile in legno atto a sostenere le campane.
Non esiste traccia della deliberazione d'incarico per la progettazione dell'opera, ma, con data 7 novembre 1892 c'è il prospetto d'un campanile in legno, a pianta quadrata di metri 5 di lato e con una altezza da terra di metri 12.50, corredato dalle condizioni per l'esecuzione dell'opera. Il tutto a firma dell'Ing. Luigi Pradetto. (Condizioni che non trascrivo, ma conservo).
Nella documentazione in mio possesso trovo indicazioni di carattere tecnico formulate dal Genio Civile circa l'incompleta indicazione delle modalità di sostegno dell'intelaiatura ed altro.
Dopo le delucidazioni fornite dall'Ing., in data 27 gennaio 1893, la delibera viene restituita munita di visto.
28 gennaio, LETTERA AL SIG.GIUSEPPE MENIA TAMON a S. Stefano

Definitivamente approvato il progetto per la costruzione di una armatura in legno per il campanile, invito la S.V. a recarsi in Comune onde conferire sull'argomento e, se del caso, stipulare il seguente contratto per l'esecuzione del lavoro.

C O N T R A T T O

L'anno 1893, il giorno 31 di gennaio, nell'ufficio comunale di Danta.
Con deliberazione consigliare 31 luglio 1892, veniva votata la costruzione di una armatura in legno ad uso campanile e in data 9 novembre stesso anno l'Ing. Pradetto presentava il relativo progetto; il quale, sebbene con osservazioni, veniva definitivamente approvato come risulta dalle note commissariali 24 dicembre 1892, N°1722, e 27 gennaio 1893, N°208.
Il progetto suddetto preavvisa una spesa di lire 415.55.
Invitato il sig.Giuseppe Doriguzzi di Giovanni, il medesimo, colla personale fideiussione del sig.Giuseppe Menia Tamon fu Leonardo, assume la costruzione della preindicata armatura, sotto l'osservanza di tutte le condizioni stabilite nel citato progetto e pel fissato importo di lire 415.55.
Fatto, letto e confermato.
Doriguzzi Giuseppe Precettor
Menia Giuseppe

Nei mesi di febbraio e marzo verranno martellate, d'urgenza, altre 43 piante per cercare di ultimare i lavori del campanile.
12 aprile 1893: lettera del Commissario Distrettuale : lavori non fatti bene, contratto non approvato superiormente.
19 maggio 1893 al Comm.Distr. per richiesta ulteriori lavori; risposta favorevole in data 22 maggio 1893.

--------------- - ---------------


All'onorevole GIUNTA MUNICIPALE di DANTA

Come è noto ad ognuno il sottoscritto in base a contratto ha costruito l'armatura a legno pel sostegno delle campane che furono tolte dalla vecchia torre in stato di totale deperimento, ma il lavoro non fu ultimato in causa di certe vertenze, le quali poi furono verificate pel solo scopo di criticare l'opera di un paesano ed in un momento di piena crisi popolare.
Come condizione di contratto il pagamento dev'essere effettuato ad opera compiuta, e mancando ancora alcuni denari, il sottoscritto è sempre esposto del suo avere.
Colla presente invita Codesta Onorevole Giunta a voler disporre pella consegna del legname ancora occorribile per l'ultimazione del predetto lavoro, potendo lo scrivente garantire l'opera sua contro le calunnie dei suoi nemici.
Così facendo Codesta Onorevole Giunta adempirà ad un suo dovere, quello cioè di mettere un povero artigiano nella possibilità di riavere il suo giusto onore, ed anche coll'assecondare il desiderio della popolazione la quale desidera di sentire il suono delle campane che potrà avvenire pella sollenità del 16 agosto p.v.
In attesa di vedersi preso in considerazione
Danta,17/7/93
Menia Giuseppe

Per la festa di san Rocco le campane hanno realmente suonato, ma la stabilità della nuova costruzione in legno non dava garanzie di stabilità. Non esiste documentazione che provi per quanto tempo sia stato utilizzato questo campanile. Lo si vede comunque in una foto scattata durante la costruzione del nuovo campanile in tufo.

indice

LA SIEGA ZIENZA AGA

Tanc ane fa,cuan che cu n "taio" straordinario i misuréa l tàie da Valmadèn al Giò Gran, anch ié ero zal bosco"a tignì tésera" pr conto d Comun. Na dì, férme pr n spuntìn, s parléa d com ch i nos vece s bté in mènte anch zèrth robe stranbe cun chèla da spargné algo, sèia pr la so céda, sèia pr al bèn dla Régola u dal Comun. A n bél momènto, Meno d Caio n mostra l Giò, propio ilò gno ch al tarèn dla sponda scomnzéa a céde e franéa e n dis: "Chèl è l posto gno ch è stada fata la famosa siéga ch dovéa funzioné cu l'aga dal Giò Gran. I véce volé rsparmié sul costo dla corente ch fadéa dì la siéga d comun, sèia pr sié l lgname d rifabrco,sèia pr l brèie e i briòign vndùde pr paregié i bilance". La marvèia d chi doign com me,è stada granda parchiè ch n avòne mai sintù sta roba e s spitéa ch al n conte com ch'era du a fnì. Ma anch al tempo pr al spuntìn era fnù e a li n é rstò ch lasàne frèide contando la romnàda di Gnoche sui dantins:"Sèdé chèi dla siéga zienza aga"Ma com'erla stada vramènte? Purtropo l Giò Gran n'avéa mai do aga asèi pr fèi dì l pale dla siéga! E sto così fazile pr chèi di paese pì' davdìn avèi sto motivo pr burlane. Sta nuéva, però, m'avèa lasò cu na voia mata d cetà,na dì, n Beputo,n Iolando, un d chi pì vece dal paese pr fèime contà la storia d sta strana avntura. Para incuéi, para domàn, vien l momènto ch ie laso Danta e m dsmentio d pì' d na roba ch me intereséa cognose mèio cul sntìla contada da chi ch l'avéa visùda.
A distanza d'ane, èi avù muédo da esaminé Delibere d Consiglio e d Giunta, gno ch t céte duto chèl ch è sto dito e deciso da fèi pr al nos paese, da cuan ch l'è sto fato Comun fin al dì d incuéi e,chié n èi cétò?Pnsèi! M s'è prsntada duta la storia dla sièga. Ei così liéto dl prime idéé sula posibilité d fèila; èi savù dl visite in do, trèi parte dal Veneto, a siéghe a vapòr, bél in funziòn; d tance preventive però masa ciare pr i bilanc nose: d parers tecnici pì' ch favorevoi pr fèila dì invez a aga.E po',unanime la decisiòn d progetala, d'acuisté i machinarie, bètla in opera e po'… cla pura bruta fin! Dopo chèlch an, rstàda là duta abandonàda e in rovina, la siéga è fnìda vndùda pr fèro vecio e l legname lasò gratis a chi ch s la sintìa da dì a tol-lo fin ladu, zal Gio Gran. Ma, pr duta sta storia, ncamò invuéi, ié m domando: On da dà colpà ai nos vece u a chi strapagade d tecnici e d'ingegnérs ch fotse n s'avéa nanch sporciò l scarpe pr rué fin ladù, in stasòn d piova, d nève, d soròio, pr vède cuanta aga ch coréa z cal giò e s la podé avèi senpro forza asèi pr fèi muove i mecanisme dla siéga ? Rstòn pur "Chèi dla siega zienza aga", ma algo d bél e d bèn -ignére e incuéi- à pur senpro savù fèi, doign e vece d Danta, chilò e in giro pr al mondo !

LA SEGHERIA SENZ' ACQUA

Tanti anni fa, quando, dopo un "taglio" straordinario stavano misurando i tronchi da Valmadèn al Giò Gran, c'ero anche io, lì, nel bosco, a "tener tessera" nell'interesse del Comune. Un dì, fermatisi per uno spuntino, si parlava di come i nostri vecchi si mettevano anche in mente certe cose strane con l'intenzione di risparmiare qualcosa, sia per la propria casa, sia nell'interesse della Regola o del Comune. Ad un certo punto, Meno Caio ci indica il Giò, proprio lì dove il terreno della sponda incominciava a cedere e franava e ci dice: "Quello è il posto dove è stata costruita la famosa segheria che doveva funzionar con l'acqua del Giò Gran. I vecchi volevan risparmiare sull'energia elettrica necessaria per azionare la segheria del comune, sia per segare il legname necessario al rifabbrico, sia per le tavole ed i tavoloni venduti poi per pareggiare i bilanci". La meraviglia di quei giovani, come me, è stata grande perché mai avevamo sentito parlare di questa cosa e ci si aspettava che ci raccontasse come era andata a finire. Ma, anche il tempo per lo spuntino era finito ed a lui non è rimasto che lasciarci di sasso ripetendo la freddura ironica dei Gnoche su di noi: "Siete quelli della segheria senza acqua"! Ma come era andata veramente la cosa ? Purtroppo il Giò Gran non avea mai dato acqua sufficiente per far azionare le pale della segheria!!! Fu così facile per gli abitanti dei paesi vicini avere tale motivo per burlarci. Questa notizia, però, mi aveva lasciato col gran desiderio d'incontrare, un giorno, un Beputo, un Iolando, uno di quelli tra i più vecchi del paese per sentirmi raccontare per intero 'sta strana avventura. Ma rimanda oggi, rimanda domani, giunge il momento ch'io lascio Danta e mi dimentico di più d'una cosa che mi interessava conoscere meglio sentendola raccontare proprio da chi l'aveva vissuta. A distanza d'anni, ho potuto esaminare Delibere di Consiglio e di Giunta, ove ritrovi tutto ciò che è stato detto e deciso di fare per il nostro paese, da quando è di-venuto Comune autonomo fino al giorno d'oggi e…che cosa ci ho trovato? - Pensate !.… Mi si è presentata tutta la storia della segheria. Ho così potuto legger delle prime idee sulla possibilità di realizzarla; ho saputo delle visite - in due, tre parti del Veneto - a segherìe a vapore già in atto; di tanti preventivi troppo onerosi per i nostri bilanci; di pareri più che favorevoli di tecnici per farla funzionare ad acqua. Ed infine, la decisione unanime di passare al progetto, all'acquisto dei macchinari, alla messa in opera e poi…quella povera brutta fine!!! Dopo qualche anno, rimasta là tutta abbandonata ed in rovina, la segheria è finita venduta come ferro vecchio ed il legname concesso invece gratis a chi se la sentiva di scendere per prenderselo fin laggiù, nel Giò Gran. Ma, per tutta questa storia, ancor oggi, io mi chiedo: "Dobbiamo dare colpa ai nostri vecchi o a qugli strapagati tecnici ed ingegneri, che forse non s'erano neppure sporcate le scarpe per scendere fin laggiù, in stagione di pioggia, di neve, di sole, per vedere quanta acqua scorreva in quel torrente e se sarebbe stata sufficiente sempre per azionare i meccanismi della segheria? Restiamo pure "Quelli della segheria senz'acqua", ma qualcosa di bello e di buono - ieri ed oggi - hanno pur sempre saputo fare, - giovani e vecchi di Danta, qui ed in giro per il mondo!

indice

LA LAPIDE D ROSSIN SUL SCOLE

e n tin dla so storia

Anch sta lapide à na so storia ch nase dopo che ai 2 d'otobre dal 1935, l'Italia ave dichiarò guera a chela che inclota s ciamea Abisinia e incuei inveze Etiopia. Guera che Mussolini lavéa giustificheda come n nos dirito a avei "n posto al sole" pr portà ladù la civiltà e mandà i nos operai a fei strade, ponte, cede. Tance di nose è infati dude a lorà fin davdin Addis Abeba e zal Gima, ma l clima n i confria e nsun è sto pi' d n an e medo. La guera n'era scopieda ch da piece discuan che, ai 11 d'otobre, 51 State e tra chese Francia e Inghiltera tance che avea. Luere sì, colonie pr duto l mondo à deciso d castigane cul "sanzioni economiche" ch volé dì n conprà pi' gnente dal'Italia e n vendne nsuna merce. L Governo è sto costreto a studié l muedo d fei dì inante l paese cun solo chel ch al produsea e cu l'aurarchia e scoperte d nueve matriai s la son giavada riusendo prfin a sostituì l coton cul "Lanital". Dopo dla decision da parte dla Societò dle Nazioni d Gunevra d punìne in cal muedo, è sto inposto che su duce i munzipie d'Italia fos btuda na lapide "a ricordo delle inique sanzioni".Morto l Fascismo e fnida la sconda guera mondial, anche a Danta, come daprduto, è stada cancelada sta scrita e la lapide è rstada ilò, vueta, sul Comun. In ocasion dal centenario dla morte dal nos Rossin è sto deciso d tirala du dal Comun, dàla al scultor Guglielmo De Martin de Sa Stefi pr cal rafigure l poeta scondo l cuadro ch'era z sagstia e scrive ste parole detade dal prof. Fabiani:


Danta
qui ricorda con fierezza con gratitudine ad esempio
ANTONIO DORIGUZZI ROSSIN
1788 - 1856
Contadino poeta sollecito vindice della comunale indipendenza - cantore delle vittorie cristiane sui turchi
.


Na otantina d'ane fa, iludendose, s scomnzé a scrive n tin d storia dl'Italia inperial e s vardéa na porta pr tanc disocupede. N'è pi' nsuign d chi nose ch è stade ladù com militars u operai, ma forse sta storia dla lapide d Rossin pué fei ch calchdun li beta tra chei che, com li, à portò tra la dente l bon nome dal paese.

LA LAPIDE DI ROSSIN SULLE SCUOLE

ed un po' della sua storia

Anche questa lapide ha una sua storia che nasce dopo che il 2 ottobre del 1935 l'Italia aveva dichiarato guerra a quella che allora si chiamava Abissinia ed oggi invece Etiopia. Guerra che Mussolini aveva giustificato come un nostro diritto ad avere "un posto al sole" per portare laggiù la civiltà e mandare i nostri operai a costruirvi strade, ponti, case. Tanti dei nostri ci sono infatti andati a lavorare fino nei pressi di Addis Abeba e nel Gimma, ma il clima non conferiva e nessuno è riuscito a starci oltre un anno e mezzo. La guerra non era scoppiata che da pochi giorni quando, all'11 ottobre 51 Stati e tra questi Francia ed Inghilterra che avevano, loro sì, colonie per tutto il mondo hanno deciso di castigarci con "sanzioni economiche" che voleva dire non comperare più nulla dall'Italia e nulla venderci. Il Governo fu costretto a cercar il modo di far avanzare il paese con solo ciò che si produceva e con l'autarchia e scoperte di nuovi materiali ce l'abbiamo fatta riuscendo perfino a sostituire il cotone con il "Lanital". Dopo della decisione da parte della Società delle Nazioni di Ginevra di punirci in tal modo, è stato imposto che su tutti i Municipi d'Italia fosse posta una lapide "a ricordo delle inique sanzioni". Morto il Fascismo e terminata la seconda guerra mondiale, anche a Danta, come dappertutto, è stata cancellata questa scritta e la lapide è rimasta lì, vuota, sul Municipio. In occasione del centenario della morte del nostro Rossin, è stato deciso di asportarla da lì, darla allo scultore Guglielmo De Martin di Santo Stefano perché in essa vi raffiguri il poeta secondo i lineamenti del quadro esposto in sacrestia aggiungendovi queste parole dettate dal prof. Fabiani:

Danta
qui ricorda con fierezza con gratitudine ad esempio
ANTONIO DORIGUZZI ROSSIN
1788 - 1856
Contadino poeta sollecito vindice della comunale indipendenza - cantore delle vittorie cristiane sui turchi.

Una ottantina d'anni fa, illudendosi, si iniziava a scrivere un po' di storia della Italia imperiale e si apriva una porta per tanti disoccupati. Non c'è più nessuno di quei nostri che erano andati laggiù come militari o operai, ma forse questa storia della lapide del Rossin può far in modo che qualcuno li consideri tra quelli che, come lui, hanno portato tra la gente il buon nome del paese.

indice

L PORZSION FOR D PAESE

Una dli ocasion pr cetase insieme tra duce  i pizi dal paese era chela dl porzsion d san Lorenzo e sant’Ana.  Ci si andava sì anch pr dvozion, ma soralduto pr la novité d cetase fora e d vede algo d nuevo. N savone pì’ ch tanto dal  voto ch i nos vece avé fato a san Lorenzo, ma dì a Ciadada volé anche dì’ fei dute l curte fin a Cianpdel cul pre e femne anziane che stntéa cuan ch al truei  s strndea u s’era da pasà l gioazel d Cianpanele. Ne piasia po’ pasà l Padola e vedlo cun tanta aga e  rué infin su zn paesuto ch vdone senpro da sora in du e n parì tanto pizal da feilo fora cun doi pase. Ruede inveze z cla so gedia s’inacordone ch l’era pì’ granda d santa Barbora e ch l cede era pì’ d chele ch pnsone. I ne spité cul cianpane ch sonéa e tance ch n fadè ala inante d’entrà z gedia. Don Alberto didé, com senpro, la Mesa in longo e racomandé l paese intiero al Santo. Fnida anch chesta i greign dé pr i fate suei e  pr nei gné l pì’ bel parchié che aron libre da tornà su parlando d san Roc ch ruea dopo puece dis u pasando pal bosco a cetà fonghe e divrtise n mondo. Unune senpro bel e sante tanto cun sta porzsion,cuanto cun chela d sant’Ana che gné fata anche che sta d’istiè u pr prié la pioa, u pr ch torne n tin d soroio pr l canpagne. Da hestai purtropo fora d’erba e patate n s podé spité autro, ma l masa ciaudo u la tanta pioa bté in pricol i racolte e fadé trmà a pnsà al’inverno zienza scorte. La dente avè fiduzia zi sante e soralduto, in sti case, in sant’Ana e così insistea cul pre pr ch al stablisa da dì in porzsion fin z cla gediuta che s ceta tra sant’Antone e Padola pr prié la Santa da feine la grazia dal bel u dal bruto tenpo. L dì stablù, s partia  bonora, s dea su pl Palude e l Ciope e in Zstela finalmente t cetea n tin d pian fin dal capitel d sant’Antone. Da ilò t’avé fnù da fei fadia anche a prié a os auta, insieme al pre, parchié ch la strada gné duta in discesa. Pasò l lago, cetone la gedia verta e, chelch ota, anche al mon-go che ne acolié sonando la canpanela. Fnida la Mesa, n spitéa  l viado inverso, ma cun manco fadia e tanta spranza che- come si didea- “ Sant’Ana verda l lago”, cu spitone la pioa u “ch al lo suie”, s ‘avone bisogno d soroio. Ch seia stada na dornada bela u bruta, i pras- ch era snpro pien d fiore, orchidee slvatiche, gilie bianche- era n sfogo pr chi ch godea a coili, spezie se canaie che, al contrario d chel ch i tocé cuan ch i dea a sant’Anton cu la scola, n’i avé  po’ zerto l pnsier d contalo sul diario l dì dopo.

LE PROCESSIONI FUORI PAESE

Una delle occasioni per ritrovarsi assieme fra tutti i bambini del paese era rappresentata dalle processioni di san Lorenzo e di sant'Anna. Ci si andava sì anche per devozione, ma soprattutto per la novità di trovarsi fuori paese e vedere qualcosa di nuovo. Non si conosceva più che tanto del voto che i nostri vecchi avevano fatto a san Lorenzo, ma scendere a Casada significava anche percorrere tutti i sentieri fino a Campitello con il sacerdote e le donne anziane che faticavano quando la stradetta si restringeva o si doveva attraversare il ruscelletto di Campanelle. Ci piaceva poi oltrepassare il Padola e vederlo con tanta acqua e giungere infine su in un paesello  che vedevamo sempre dall’alto e ci sembrava tanto piccolo da poterlo attraversare con due passi.  Raggiunta invece quella sua chiesetta, ci si accorgeva che era più grande di santa Barbara e che anche le case erano più di quelle che pensavamo. Ci attendevano col suono delle campane e tanti ci facevano ala prima che si entrasse in chiesa. Don Alberto celebrava, come di solito, la Messa in lungo e raccomandava al Santo il paese intero. Finita anche questa, gli adulti se ne andavano per i fatti loro mentre per noi piccoli iniziava il più bello perché si era liberi di risalire a Danta parlando di san Rocco che sarebbe giunto dopo pochi giorni o passando per il bosco cercando funghi e divertendosi un mondo. Univamo sempre bello e santi tanto durante questa processione, quanto con quella di sant’Anna che aveva luogo anch’essa in estate o per la pioggia o perché ritorni un po’ di sole per la campagna. Da questa purtoppo non poteva avere altro che  erba e patate, ma il troppo caldo o la tanta pioggia mettevano il raccolto in pericolo e facevano tremare pensando all’inverno senza scorte. La gente aveva fiducia nei santi e soprattutto in questi casi, in sant’Anna e così insisteva con il parroco perché decidesse di recarsi in processione  fino a quella chiesetta che si trova tra sant’Antonio e Padola per pregare la Santa di farci la grazia del bello o del brutto tempo. Nel giorno stabilito, si partiva di buon mattino, si saliva lungo le Paludi, le Ciope e giunti a Cestella ti ritrovavi finalmente un po’ di piano fino alla cappelletta di sant’Antonio. Da lì avevi finito d affaticarti anche per pregare ad alta voce assieme al parroco, perché la strada si presentava tutta in discesa. Oltrepassato il lago, trovavamo la chiesa aperta e, talvolta, anche il sagrestano che ci accoglieva suonando la campanella. Terminata la Messa, ci aspettava il viaggio inverso per il ritorno, ma meno faticoso e con tanta speranza che – come si andava dicendo - Santa Anna "aprisse il lago” quando s’attendeva la pioggia o che   “lo asciugasse”  quando s’aveva bisogno di sole. Che si fosse in una giornata bella o brutta, i prati che erano sempre  pieni di fiori, orchidee selvatiche, gigli bianchi,  erano uno sfogo per chi godeva nel raccoglierli, soprattutto se bambini che, contrariamente a ciò che capitava quando andavan a sant’Antonio  con la scuola,  non avevan poi certo il pensiero di raccontarlo sui diario il giorno dopo.
indice

LA GARA NAZIONAL D BOB SU STRADA

Da tance ane i fadé la pì’ inportante gara d bob su strada partendo dal Paso Mauria pr rué a Lornzago.  Cun Fabio Costa e un da Comelgo d Sora avon costituù na società sportiva pr i trei Comuns e arone riuscide a portase  sta gara sul traciato Danta-Cianpdel, iutede dai Alpins dla Cadore pal srvizio d’ordi e l trasmision longo la pista. In cl’ota, sula nostra strada, n’era giro d machine e manco ncanò d coriere tanto ch è sto posibil saràla pr i dis dl prove e, soralduto, pr chel dla gara. Risulet iscrite na trentina d’ecuipagi tra bob a 2 e a bob a 4.  Z pieza d Danta, ala partenza, giudici d gara, altoparlante pr ilustré l varie fse dla gara, militars in colegamento cui coleghe z duce i tornante; al’arivo autra giuria e la Croce Rosa in caso d bisogno. Duto è du ben fin a cuan che, dal tirnante d Ciananele, rua l’ordi d blocà l partenze. Da Cianpde s vué savei parchoié ch n rua du n bob; da Danta s  domanda chié ch é sto. N militar vué savei s dev parìtì l’anbulanza, n’autro domanda se l bob è ncamò in gara, etre s la corsa è sospesa. M fazo pasà l telefono e digo ai militars d pasas la os d frmà in cualsiasi punto dla strada bob u eventual machine ch s presente e che parta lolo la Croce Rosa pr rué sul posto d l’incidente . L primo ch ebia notizie l comuniche al do giurie. Dopo n bon tin, n soldà m pasa l telefono: è un dla scuadra d Brsanon che m dis ch la femna d un di so concorente è stada ciapada sote proprio da n so bob e che i sta portandola a l’ospdal. N al sa u n al vué ddime se s trata d na roba grave Intanto se è sintide anche l do giurie e à deciso, su condivisa opinion dla Brsanon, d fei partì i cuatro ultme ecuipage e conclude l canpionato. Na gnan bela sperienza pr Danta, conclusa però cun tin d dispiazer pla disgrazia ch’avé interesò proprio una dl scuadre pì’ cuotade pla vitoria. 

LA GARA NAZIONALE DI BOB SU STRADA

Da tanti anni la più importante gara nazionale di bob su strada veniva fatta partendo dal Passo Mauria per arrivare a Lorenzago. Con Fabio Costan, ed uno di Comelico Superiore avevamo costituito una società sportiva per i tre Comuni ed eravamo riusciti a portare questa gara sul tracciato Danta- Campitello, aiutati dagli Alpini della Cadore per il servizio d’ordine e per le trasmissioni lungo la pista. A quell’epoca, sulla nostra strada, non c’era passaggio di macchine e meno ancora di corriere tanto che è stato possibile chiuderla durante i giorni delle prove e soprattutto, durante quelli della gara. Risultarono iscritte una trentina di equipaggi tra Bob a 2 e Bob a 4. Nella piazza di Danta, alla partenza, giudici di gara, altoparlanti per illustrare le varie fasi della gara,  militari  collegati con loro colleghi su tutti i tornanti; all’arrivo altra Giuria e la Croce Rossa per un eventuale caso di bisogno. Tutto è filato liscio fino a quando, dal tornante di Campanelle, giunge l’ordine di bloccare le partenze. Da Campitello vogliono sapere perché non scendono più bob, da Danta si domanda che cosa sia successo. Un militare vuol sapere se deve far partire l’autoambulanza, un altro vuol sapere se il bob è ancora in gara, altri se la corsa è da considerarsi sospesa. Mi faccio passare il telefono e dico ai militari di passarsi la voce di bloccare in qualsiasi punto della strada o bob o eventuali macchine che si presentano e che invece parta subito la Croce Rossa per raggiungere il posto dell’incidente. Il primo che abbia notizie sicure le comunichi alle due giurie. Dopo un bel po’ di tempo, un mllitare mi passa il telefono: è uno dei componenti dell’equipaggio di Bressanone che mi informa che la moglie di un loro concorrente è stata investita proprio da un loro bob e che la stanno trasportando all’ospedale. Non sa o non vuol dirmi se si tratti di cosa grave. Intanto si son sentite anche le due giurie ed hanno deciso, su condivisa opinione della squadra di Bressanone, di far partire i quattro ultimi equipaggo e concludere il campionato. Una gran bella esperienza per Danta, conclusasi però con un po’ di dispiacere per la disgrazia che aveva interessato proprio una delle squadre più quotate per la vittoria.

indice

IL “ RIPETITORE RAI” DI SANTA BARBARA

Era da tempo che si riceveva la televisione grazie alla buona idea di un certo Velio che, in Pieve, aveva  un negozio di radio e televisori. Era tanto addentro in queste cose che era riuscito a realizzare un ripetitore privato che ha consentito finalmente di veder benino  programmi  Rai. Certo che, se da noi si ricevevan segnali discreti, in alcuni paesi li vedevan appena, in altri neppure vi giungevano. Finalmente la Rai  si è svegliata e, dopo prove di qua e di là, hanno trovato, presso la Prima Piazza, un posto dove il loro segnale giungeva forte ed atto ad essere amplificato ed indirizzato verso tutto il Comelico. Per di più, vi di poteva giungere usando la strada delle Piazze, a due passi dalle ultime case di Sopra la Chiesa ed adatta anche al passaggio di camion per trasportarvi il materiale delle antenne e di facile accesso per il controllo o la riparazione in caso di guasti.  Unica difficoltà: ottenere il terreno per farvi la casetta ove riporre tutto il materiale radioelettrico e per posizionare il traliccio per le antenne. Il terreno era infatti della Regola e, come ben si sa, a base di Statuto, “indivisibile ed inalienabile”. Considerata però  la pubblica utilità dell’iniziativa, la Rai se  lo è comperato ed, in poco tempo, olltre le cime degli abeti rossi, si cominciò a veder crescere il traliccio e posizionarvi le antenne su Santo Stefano e Comelico Superiore. Già durante le prove, la gente si divertiva ad ammirarsi lo schermo dei televisori, bello, senza quella specie di neve che prima riduceva una chiara visione di tutte le immagini. E’ giunto finalmente anche il giorno della inaugurazione, con la presenza di tante autorità dell’intero Comelico e perfino quella del Vescovo che ha benedetto l’impianto. Tutto è andato bene e tutti erano contenti, specialmente i paesani che erano convinti di vedersi reclamizzati dal ripetitore che si chiamasse “Danta". Con un po’ di amaro in bocca hanno invece saputo che l’avrebbero definito “Comelico” e questo non certo per scelta della Rai. Un po’ di beneficio in più degli altri paesi l’abbiamo avuto quando ad uno dei nostri è stato dato l’incarico di mantenere aperta la strada d’inverno ed a Ettore quello di sorvegliare gli impianti ed alternare gli amplificatori di segnale in caso che si guastasse uno. Qualche danno, prima non previsto, continua ad avere la Regola. Durante i temporali, con nuvole basse, i fulmini attirati dalla massa del traliccio, non arriva a colpirlo, ma si scarica prima sulla punta di una pianta e te la ritrovi dopo sparpagliata attorno, ridotta a pezzetti adatti solo per far fuoco. Un prezzo pagato alla modernità, al progresso.

L “RIPETITOR RAI” D SANTA BARBORA

Era da tenpo che s vdea la television grazie ala bona idea de n zerto Velio che, a Pieve, avea n negozio d radio e televisors. Tanto l s’intendea d ste robe da riusì a feise n ripetito rprivato che à consentù finalmente d vede abastanza ben i programe dla Rai. Zerto che, se su da nei t ciapéa n sgnal discreto, ze n puece d paese i lo vdea apena; in etre nanche n’al ruea. Finalmente la Rai s’è dsdada e, dopo prove d ca e d là, i à cetò, davdin la Prima Pieza, n posto gno che al so sgnal ruea forte e adato pr ese anplificò e indirizò verso l Comelgo intiero. Oltre a duto ilò s podé rué dorando la strada dl Pieze, a doi pase dali ultme cede d Sora la Gedia e adata anche pr al pasagio di camion pr portà su l matrial dli antene e d fazile aceso pr al controlo u la riparazion in caso d guaste. Unica dificoltà: otignì l taren pr fei la ceduta gno bete duto l matrial radi.eletrico e pr posizioné  l tralicio pr li antene. L taren infate  era dla Regola e, cone ben s sa, a base d Statuto, “indivisibile ed inalienabile”. Considerada però la publica utilità dl’imiziativa, la Rai s l’é conprò e, in pueco tenpo, otra l zime di pozies, s’à scomnzò a vede a crese l tralicio e posizionase li antene verso Sa Stefi e Comelgo d Sora. Bel durante l prove la dente s divrtia a vardase l schermo di televisore, bel, zienza cla spezie d neve che inante ridusea la ciara visiom d dute le imagini. E’ ruò finalmente  anche al dì dl’inaugurazion, cu la presenza d tante autorità dl’inriero Comelgo e prfin chela dal Vesco ch à bndù l’inpianto. Duto è du ben e duce era contente, spezie i paesane convinte d vedse reclamizade dal ripetitor che s ciames: “Danta” Cu n tin d’amaro z bocia i à savù ch inveze i l’avrà definù: “Comelico”  e chesto no zerto pr selta dla Rai. N tin d benefizio in pì d chietre paese on avù cuan che a un di nose è sto do l’incarico d tignì neta la strada d‘inverno e a Etore chel d sorveliè li inpiante e altrnà i anplificators d sgnal in caso che un sotès.  Invezr chelch dano, non prvisto inante, continua a avei la Regola. Durante i tenporai, cun nughi base,i fulmine atirede dala masa dal tralicio, n rua a colpidlo, ma s dsciareia inante la zima d na pianta e t la cete dopo, sparpagneda intorne, ridota in sbrindoi adate solo pr fei fuego.  N prezio pagò ala modernità, al progreso.

indice

“Cola nostra dema pagheremo la vostra stema”

L costo d gestise in Comun autonomo è sto così auto che, a n zerto punto, l solito taio dal bosco n bastea pì a fei fronte al spese.  Li os core e i furbe, pronte a lucré sul dificoltà dla dente, spieta d dì in dì che se rue a dovei vendse pras e bosche pr  salvase.  Na particolar sodisfazion n puece s la ceta adiritura a gnì fin su a Danta pr tastà l polso ala dente e soralduto ai aministrators de Rgola e Comun. Tra i tance che, scondendo l vero motivo, rua fin su a Danta, s fa vivo anche  n nobile venezian che, ben informò su sto problema d licuide e convinto d feila a sti porete d montanare, se ofre d fei n prestito a bone condizion e a longia scadenza. S riunis Giunta e Regola e, duc contente dl’oferta, i la aceta fidando su la parola, pr na lontana restuituzion.Ruede i sode, s provede a pagà lolo duc i debte e se scomenza a studié l muedo d replì in tin a l’ota  chelda tornà al benefator. Ma chelch meis dop eco la sorpresa. Rua l nobile; e n’é pì li, cal bon on! Zienza med parole l pretende i sode u tanto bosco da cuerde l debto L se spieta pr de pì che i lo ciame al pì  presto pr savei la decizion! I Aministrators dla Regola se ceta cun chei d Comun e, in pien acordo, i decide d sintì i cape fameia, su zla Terza Pieza,ma d sconto, parchié ch la roba reste  segreta l pì in longo posibil. Dante la proposta u d cede l bosco u d taié anche l’ultma pianta pr incasà l’indispnsabile, i rgolers decide pr sta soluzion e, pr podei fei l necesarue pratiche burocratiche zienza intope i s’inpegna  a fei che d sta decision nsun autro viena in savei. Otignuda l’autorisazion a n taio straordunario d piante, parte  l’invito al nobile pr n incontro coi regoliere. Li s presenta e se siente a dì che, via pl’insuda, l sarà pagò. Presuntuoso e arogante, minazando tribunai se i sode n rua, fa pr lasà la sala cuan ch na os, in medo, i ziga: “Co la nostra dema, pagaremo la vostra stema”. Da  veneto, li intuis che cla frase signéa la fin di so sogne. I ciarìs ncamò da pì l caporegola: ”Sior Conte! Gavemo fato n contrato sula parola. Lei la ga mancà e la ga cusì dimostrà che la so nobiltà val deso cuanto la demola dele piante che taieremo per tornarghe i soldi”.   

Ncamò incuei na parte dal nos bosco porta n nome che s rifà a cal tenpo:  è chela che, prrsituì i sode al venezian,  i avéa scugn§ taié a raso: la “Viza Nueva”.

"I soli aghi dei rami dei nostri abeti  varranno più della mancanza di parola che disonora il  vostro stemma”

Il costo per gestirsi in Comune autonomo è stato così alto che, ad un certo punto, il consueto taglio del bosco, non bastava più a coprire le spese. Ne corre voce ed i furbi, pronti a lucrare sulle altrui difficoltà, attendono di giorno in giorno, che si giunga a dover vendere prati e boschi per salvarsi. Una particolare soddisfazione alcuni se la trovano addirittura nel salir a Danta per tastare il polso alla gente e soprattutto ad Amministratori di Regola e del Comune. Fra i tanti che, nascondendo il vero motivo vi giungono, c’è anche un nobile veneziano che, ben informato sulla mancanza di liquidi e convinto di farla a quei poveri di montanari, si offre di conceder un prestito a buone condizioni ed a lunga scadenza. Si riuniscono Giunta e regolieri e tutti contenti dell’offerta, la accettano fidando sulla parola per una lontana restituzione. Giunto il denaro, si saldano subito tutti i debiti e si incomincia a studiare il modo di reperire un po’ alla volta quello da restituire al benefattore. Ma qualche mese dopo ecco la sorpresa. Arriva il nobile, ma non è più lui, quel buon uomo! Senza mezze parole pretende la restituzione del denaro o  tanto bosco da coprire il valore del prestito. Sì aspetta inoltre  che lo chiamino presto per conoscere la decisione! Si riuniscono gli amministratori di Regola e quelli del Comune ed in pieno accordo decidono di convocare i capifamiglia,  su nella Terza Piazza, ma di nascosto perché tutto rimanga il più a lungo segreto. Tra la proposta o di cedere il bosco o di tagliarlo a zero per realizzare quanto indispensabile, i regolieri decidono per questa e per mandar avanti le necessarie pratiche senza intoppi  si impegnano acchè nessun altro venga a conoscenza della decisione. Ottenuta l’autorizzazione ad un taglio straordinato di piante, parte l’invito al nbobile  per un incontro con i regolieri. Lui si presenta e si sente dire che sarà saldato nel corso della primavera.  Presuntuoso ed arrogante, minacciando azioni legali qualora non venisse pagato, accenna a lasciare la sala  quando, da in mezzo ad essa, una voce gli urla: “Con gli aghi dei rami dei nostri abeti pagheremo il vostro stemma”. Da veneto egli intuisce che la frase significava la fine del suo sogno. Gliela chiarisce ancor più il caporegola: ”Signor Conte! Abbiamo stipulato un contratto sulla parola. Lei  non l’ha rispettata ed ha così dimostrato che la sua nobiltà ora vale  quanto  la “demola” delle piante che taglieremo per reatituirle il suo denaro”.

 Ancor oggi una parte del nostro bosco porta un nome che si rifà a quel tempo: è quella che, per restituire il denaro al veneziano, avevano dovuto tagliare a zero: la “Vizza Nuova”.
indice

Don Alberto: rapporti con i parrocchiani in cerca di lavoro o emigrati in Africa Orientale Italiana.

E’ ben noto a tutti come, fino  a dopo la seconda guerra mondiale, fosse difficile per i nostri operai trovare lavori duraturi o anche solo stagionali. Erano soprattutto minatori e manovali che venivano assunti da imprese operanti nel Nord Italia per costruire condotte forzate atte a portare l’acqua  alle centrali elettriche. Inizio e fine dei lavori eseguiti in alta montagna erano condizionati dall’andamento delle stagioni e dalle precipitazioni nevose per cui i cantieri, a volte, s’aprivano a maggio per chiudersi ad ottobre. Di disoccupati ce n’erano un po’ dappertutto e, per dare maggior importanza alle richieste di assunzione da parte dei nostri, il Parroco si rivolgeva ogni anno, caldeggiandole, alle Imprese presso cui avevano lavorato con assiduità ed ottimi risultati. Spesso era proprio lui stesso a dar comunicazione dell’avvenuto accoglimento delle domande. Questo rapporto con i parrocchiani, unito alle loro convinzioni religiose, si concretizzava in brevi contatti epistolari ed in un costante ricordo delle necessità della nostra chiesa per cui venivano allegate offerte. Ne è testimonianza la lettera che don Alberto scriveva loro  il 28 maggio 1937.

Preg.mi  PARROCCHIANI,

  Mi immagino quanti lamenti e giuste proteste tra Voi per il mancato ringraziamento del sottoscritto in occasione della lettera ed assegno inviato! Avete non una , ma mille ragioni di brontolare.
  A dir la verità, tale ritardo non ha dipeso da poca gratitudine, ma da un complesso di cose, tra l’altro, per vatio tempo la salute un po’ scossa perché non curata, ed un lavoro non indifferente richiesto dai Superiori
(duplicati di tutti gli atti di Battesimo, Cresima, Matrimoni, Morti dal 1925 al 1936 compreso: 11 anni!)
   Ed ora Vi ringrazio con tutto il cuore della bella lettera che rispecchia sentimenti cristiani ; scritto che davvero Vi fa onore, e mi conforta 
    Ed è proprio così; quando si è lontani dalla famiglia, dalla Chiesa co’ suoi dolci ricordi, dal paese natio, dalla Patria, gli affetti più cari, ed i ricordi più santi che sembravano assopiti, si risvegliano come per incanto suscitando nell’animo una viva commozione che appena apena si acquieta nell’occupazione quotidiana.
    I miei più vivi ringraziamenti per l’assegno, quale offerta per la santa Messa all’Altare della Madonna    (£10,00) celebrata lì 8 maggio e a decoro della Casa di Dio.
    Vi ricompensi Egli che può; e Vi ricompensi largamente secondo le vostre necessità spirituali, ed in pari tempo Vi doni abbondante salute e fortuna.
    Ieri, Corpus Domini: in Processione vidi con dolore la lunga  colonna di uomini e di giovani  ancor qui; e siamo agli ultimi di maggio. Il Signore ne abbia compassione!
    Ogni giorno Vi ricordo nelle sante Messe e preghiere; nelle vostre non dimenticatevi di me.
    I vostri di casa stanno bene.
    Gradite tutti i migliori auguri di ogn bene, e nuove grazie.                                                                                          
  Il Vostro aff.mo e riconoscente
                                                                                                          Parroco
                                                                                                   F.to don Alberto Chiarelli
Danta 28 maggio 1937 XV°

P.S. Forse pensate che le vostre Mogli non si curino di rispondervi; no, esse Vi scrivono, ma la corrispondenza non vi giunge; non so il perché. State in pace che la salute non manca.
indice

LA TRATORIA Dd IACO DLA PINOTA

D la so ostari-albergo, su z pieza granda, ei bel parlò parchié c l’era la pì cognosuda e anche publicisesda sul guide. A n bel monento, Iaco c se avéa fato na bela ceda nueva lolo inante la prima curva dal paes, ha deciso d spostase ladù com tratoria avendo anche n bel spazio ilò dante pr bete taulins e carieghe. Dopo na gestion in propio, la tratoria è stada fiteda e utiliseda lolo com albergo pr conpagnie d triestins che se canbiea ogni stomana . Picé c propio in cl an i lorea a slargé la strada d Cianpdel e la dente dové ese portada casù culi auto da nolegio fadendo l giro pr Padola e s.Antone. In stason morta l local rsté verta com, bar. Dino, unico fi d Iaco,  avéa sposò na spagnola cognosuda da legionario durante la rivoluzion e lorea in banca fora d paese. Li n’avea  li l’antarés d so pare pr cl so ativité e così anche la licenza é stada ,ceduda a Meto e Piero e portada in Pieza Lutin cul nome d “ Bar Edelweiss “ Pì tarde, i erede d Iaco,trasfride duce a Blun, à vndù anc sla nueva ceda a vilegiante. Ades ela è senpro  ben tignuda, infiorada, ridente, cu na bela meridiana pitureda propio sora l’ingreso. Anche la ceda vecia, che era stada l primo albergo d Danta, é stada vnduda a Rina di Boze e ades, al pian baso, é gnuda l supermarket dal paese; zi pians d sora s è fate apertamente, fitede soralduto ai siore d’istade e pl feste d’inverno.

LA TRATTORIA DI GIACOMO “DELLA PINOTA” (così era chiamata sua moglie)

Della sua osteria-albergo, in piazza  grande, ho già parlato perché era la più conosciuta ed anche pubblicizzata sulle Guide. Ad un certo punto, Giacomo che si era costruito una bella casa nuova vicino alla prima curva d’ingresso al paese, decise di spostare la trattoria laggiù  disponendo  sul davanti della casa  di un bello spazio per sistemarvi tavolini e sedie. Dopo di un periodo di gestione in proprio, l’azienda  venne affittata ed utilizzata subito quale albergo per compagnie di triestini  che si alternavano ogni settimana, Peccato che proprio in quell’anno lavoravano per allargar la strada di Campitello e la gente doveva essere portata quassù con vetture da noleggio facendo il giro per Padola e sant’Antoio, In periodo di stagione morta il locale rimaneva aperto come bar. Dino, unico figlio di Giacomo, aveva sposato una spagnola che aveva conosciuto da legionario durante la rivoluzione  e lavorava in banca fuori paese.
Lui non aveva gli interessi di suo padre per quelle sue attività e così anche la licenza venne ceduta a Metto e Piero e portata on Piazza Luttin con il nome di “Bar Edelweiss”. Più tardi, gli eredi di Giacomo trasferitisi tutti a Belluno, vendettero anche quella nuova casa a dei villeggianti. Ora essa è sempre ben tenuta, infiorata, ridente, cin una bella meridiana pitturata proprio sopra la porta d’ingresso. Anche la casa vecchia, quella che era stata il primo albergo di Danta, era stata venduta a Rima dei Bozzo ed ora, a pianoterra, è divenuta il supermarket del paese. Nei piani superiori si sono realizzati degli appartamenti che vengono affittati ai villeggianti durante l’estate e per le festività d’inverno.

indice

GALAPO

Tance ane dopo c l’era morto, so node Arturo c me parlea d li, l’à definù: “La television d’inclota” e m’à parù lolo na roba aproprieda.  Arone bel ruede ai tenpe che la dente dea zi bar pr vede l prime trasmision televisive e se scordone cuas d chei cuan che al nos bar era… la ceduta d Galapo. Ladù, zla cla so stanzuta u zla cianua, otra ai Struis che era duce so node, podé cetase ,duce i canaie e i dovnote dl’intiero “Cianton” pr scoltà l mile storie c li contea pr feine ride u spavntà. Era, pì u manco, senpro chele, ma li savé dontà, tiré via, slongé i particolars a sconda d chi c l’avé intorne: roba da fei trmà d paura cuan c al se cetea cui doign; da dorà un sugaman pl lagrme se l’avea dantse l todelute. Nei, né greign, né pizi, dl clase tra l 25 e l 29, podone sta seia cui canaiute, seia anche cui pì vece e li ne tratea senpro cun calma e da bonazon. Ogni storia vdea d medo strie, maghe, malspirte e fnia cun son dla Roca che i fadé scanpà u  cu n tin d’oligo bndeto burdò sula plota che, cul so odor n’ota pasò fora pr fonestra, gné pì potente dal vento ghitlo zal portà domal cl Malore. Ma cuan c al contea dli ore c al pasea a dì su e du pal paese a controlà che n parta n fuego  e, cul ciaudo, cul freido, cu la geza urlé d continuo: “Sono le ore…e tutto va bene”, t lo vdèa canbiase l béco. I tornea in mente e i  pdea la responsabilité c al s’avea tolosto: salvà l paese dal fuego cu l so solo sacrfizio. Era bel anc cuan che l so storie se rifria a robe capitede zi paese d’intorne, in Italia u adiritura in giro pal mondo. Com c al fadès a cognose nome d paese, d zità, d State, propio li c puece ote era du fora dal Cadore, duce i domandèa e li dadé la solita risposta: “Sei solo tanto scoltà”. Li savéa anche usè diverse atreze, tignude ben in ordi zla cianuuta ilò d fota  Così, fnide l so contade, li n mnea duce z sta stanzuta scura e nègra a pasa l resto dli ore cun pnì, raspe, ciode e vide.  Intanto c al fadea l so robe, nei tntone d’imitalo u s fadone contà da nuevo calc bel particolar dla so ultma storia u spitone c al scomenze n’autra.  E li ne contentéa, pì flize li d nei; pì rieduto d nei. Come so ultme imagine m lo imagino dante al Tagliavini intanto c al ghi conta la storia d “La puza” publicheda dopo sul libro “Il dialetto del Comelico” e m lo vedo pizluto com c l’era, ma gran al punto d’avei savù intrsà  n straordinario studioso dl lènghe  come al Tagliavini; lo rivèdo pizluto come c l’era, ma così gran da feise l nuete da solo e da solo garantì n paese intiero contro n teribil fuego.

Cuance piz, mai grèign omi à vivù tra ste montagne!               

GALAPO  (Menia Tamon)

Tanti anni dopo delle sua morte, suo nipote Arturo che mi stava parlando di lui. lo aveva definito: “ La televisione di quella volta” e mi sembrò subito una definizione appropriata. Eravamo giunti ormai  ai tempi in cui la gente si recava nei bar per vedere le prime trasmissioni televisive e ci si scordava quasi di quelli in cui il nostro bar era … la casettina di Galapo. dove, oltre agli Stuis che erano tutti suoi nipoti, potevano incontrarsi i bambini ed i ragazzotti dell’intero “Cianton” per ascoltare le mille storie che raccontava per farci ridere o spaventare. Erano più o meno sempre quelle, ma lui sapeva aggiungere, allungar    i particolari secondo chi aveva attorno: cose da far tremar di paura         quando si trovava con i giovani; da usare invece un asciugamano per le lacrime se aveva davanti a sé delle signorinette. Noi, né grandi, né piccoli, delle classi tra il ’25 ed il ’29, potevamo stare sia con i bambini, sia pure con i più vecchi e lui ci trattava sempre con calma e da bonaccione. Ogni suo racconto vedeva sempre di mezzo streghe, maghi, mal spiriti e terminava sempre  con il suono della “Roca” che li faceva fuggire  o con un po’ d’ulivo benedetto bruciato sulla cucina economica il cui odore, una volta uscito attraverso le finestre, diventava più potente del vento impetuoso nel portar via  quelle Malore.. Ma quando raccontava delle ore trascorse s passare su e giù pe le ie del paese per controllare che s’accenda un fuoco e, col caldo, col freddo, con il ghiaccio urlava di continuo: “Sono le ore…e tutto va bene” lo vedevi cambiarsi in volto . Gli tornava in mente e gli pesava la responsabilità che si era assunto: salvare il paese dal foco col solo suo sacrificio. Era bello anche quando i suoi racconti ai riferivano ad eventi capitati nei paesi attorno, in Italia o addirittura in giro per il mondo. Come egli facesse a conoscere nomi di paesi, di città, di Stati, proprio lui che poche volte se ne era uscito oltre il Cadore, tutti glielo chiedevano e lui  ripeteva la solita risposta: “ So solo tanto ascoltare”. Egli sapeva anche utilizzare diversi attrezzi,  tenuti ben in ordine nella cantinetta attigua alla cucina. Così, terminati i suoi racconti, lui  ci accompagnava tutti in questa stanzetta scura e nera per trascorrere il resto delle ore con pennelli, raspe, chiodi e diti. Nel mentre  lui provvedeva a completare i suoi lavori, noi tentavamo di imitarlo o ci facevano raccontare nuovamente qualche bel particolare del suo ultimo racconto o si aspettava che ne iniziasse un’altra. E lui ci accontentava, più felice lui di noi, più bambino di noi. Come ultima sua immagine me lo immagino davanti al Tagliavini mentre gli sta raccontando la storia de “ La Puzza “ pubblicata successivamente sul libro “ Il Dialetto del Comelico .“ Me lo vedo, piccolo di statura com’era, ma grande al punto d’aver saputo interessare uno straordinario studioso di lingue come il Tagliavini, lo rivedo piccolino come era, ma così grande da trascorrere le notti da solo e da solo garantire un intero paese contro un fuoco terrorizzante.

Quanti piccoli, ma grandi uomini hanno vissuto tra queste montagne!  
indice

L CUERTO DI MATEA E L CAPITéL DAL CRISTO

fnida la sconda guera e duce, cuas pr dsmntié chi tenpe d paure e dsgrazie, zrchea d betse n tin pì a posto l cede e i tabias. Pal pasò, algo i paroign avé scugnù inpiantà a mtà causa la naia, autro era sto btu da parte pr spité tenpe c dadès posibilté d laore e d’ingrumase calc franco. Tra l tante robute c avé canbiò man man l’aspeto dal paese, una s fadé notà sora d duto: la sola ceda nueva fatta fei dai fradis Matea, a mtà d Vilapizla, lolo sot dla strada, dante l capitel dal Cristo. Siole, fonestre e cuerto era fnide; mancé ncamò solo i luminai.    Arone d’agosto e, com senpro, dornade bele e ciaude s’altrnéa a etre freide e prfin cu na sbridga d neve pl zime. Veia dl’Asunta, inuglò pr duto l dì:. Bruto segno pr l do dornade d festa c se spitéa e, otraduto, chesto n lasa ben lvà la pasta pr i dolze e i crosti c l femne vué parcié pr ofrili ala dente che, cula porzion d san Roc, ruarà su a saludale. Pì d’un, inrabiò u malcontento, s bicia a paion cul muso.      Pueco dopo la medanuete s leva n bruto vento c fa sbate  scure e porte malferme, soleva e bicia du baso staip mal intasonade, roversa cariole, atreze e lamiere. Al doe, gran parte dal paese è in pes e bruda oligo bndeto; la lus s’inpiza e dstuda a ogni tarlucheda supreda dal fracaso dal vento.     Spicea e l pedo era fnu. Sona cianpana, in gran. L conzerto soleva i cuere, ma pl strade scomenza a bulié masa dente. N tin a l’ota ti vede cor verso pieza e po, ncamò pì presto. partì pr Vilapizla     E core anche li os: “ La ceda di Matea è zienza cuerto! L vento t l’à portò otra la strada. E’ ilò, duto poiò sul capitel e sul pra”. Na roba così s podé crede solo cul dì a vede e la porzion d curiose, d Danta e foreste, à durò dis e dis. Po’, come pr dute l gran robe, duto è pasò sot silenzio. Incuei la ceda è là, bela, cu n bandieron dla Ferari in ocasion di Gran Premi. Anc l capitel è ncamò ilò dfronte, ma n’è pì chel. Dmolù pr podei slargé la strada, cal vecio e sto canbiò zn nuevo capitel criò scavando contro l monte na spezie d grota e btendo inze l vecio altaruto e cl’unica autra parte original: l Cristo. Proprio dante a sto capitel,  la porzsion dla Purité s frmea n tin pì in longo cuas pr domandà na bndizion particolar pr cla parte n tin stacada dal paese e propioilò,pr al pasò, s frmea la porzsion cuan che, l terzo d’ dl Rogazion, se dea “ Jntorn  tavela” pr la bndizion di cianpe e di pras. Da ilò, pr al  truei c ciapea su tra pra e bosco,  s déa su fin zla gediuta d santa Barbora gno c he al pre dadé fin ala celebrazion religiosa  dando la bndizion a duce i presente. Incuei, anche cal truei è sparù: a fianco de “ L Cristo “ è stada fata su, da tenpo, na  bela ceduta.                                     

IL TETTO DEI MATTEA E LA CAPPELLETTA DEL CRISTO

Era terminata la seconda guerra mondiale e tutti, quasi per dimenticare quei tempi di paure e di disgrazie, cercavano di mettere un po’ più in ordine le case ed i fienili,. Per il passato, i padroni erano stati costretti a lasciarle incomplete alcune cose  a causa del servizio militare. altro era stato messo da parte per attendere tempi che garantissero possibilità di lavoro e d’ammucchiare qualche lira. Tra le tante cosette che avevano cambiato man mano l’aspetto del paese, una si faceva notare sopra di tutto: la sola casa nuova fatta costruire dai fratelli Mattea, a metà di Villapiccola, subito sotto la strada, davanti alla  cappelletta del Cristo. Pavimenti finestre e tetto erano ultimati; mancavano ancora solo gli abbaini. Eravamo d’agosto e,  giornate belle e calde s’alternavano, come sempre, ad altre fredde e perfino con una spruzzata di neve sulle vette. Alla vigilia dell’Assunta, nubi per tutto il giorno: brutto segno per le due giornate di festa che s’attendevano  ed oltretutto ciò impedisce il ben lievitare della pasta per i dolci ed i crostoli che le donne vogliono preparare per offrirli alla gente che, con la processione di san Rocco  giungerà su per salutarle. Più d’uno, arrabbiato o malcontento, si butta a letto col muso. Poco dopo la mezzanotte, s’alza un brutto vento che fa sbattere imposte e porte malferme, solleva e butta a terra  pezzi d’albero mal accatastati, rovescia carriole, attrezzi e lamiere. Alle du, gran parte del paese è in piedi e brucia olivo benedetto; la luce s’accende e si spegne dopo ogni scoppio di fulmini superato dal fracasso del vento. Albeggiava ed il peggio era passato.  Suonano le tre campane grandi. Il loro unisono solleva i cuori, ma per le strade incomincia a muoversi troppa gente. Un po’ alla volta la vedi correre verso la piazza e poi, ancota più vrloci, correre verso Villapiccola. E corron anche  le voci: “La casa dei Mattea è senza tetto. Il vento l’ha portato oltre la strada. Se ne sta  tutto posato sopra la cappelletta ed il prato” Una cosa simile la si poteva credere solo vedendola e la processione dei curiosi, dantini o forestieri, durò per giorni e giorni. Poi, come per tutte le grandi cose, tutto passò sotto silenzio. Oggi, la casa se ne sta lì, bella, con un bandierone della Ferrari in occasione dei gran Premi. Anche la cappelletta è ancora
lì di fronte, ma non è più quella.Demolita per poter allargare la strada, la vecchia   e stata sostituita dalla nuova cappelletta creata scavando contro il monte una specie di grotta ed inserendovi il vecchio altarino e quell’unica altra parte originale :il Cristo. Proprio davanti  a questa cappelletta,  la processione della Purità sostava,un po’ più a lungo, quasi per impetrare una particolare benedizione  per quella parte un po’ staccata di paese  e proprio lì, per il passato,  si fermava la processione quando, il terzo giorno delle Rogazioni, si andava “intorn tavela”,  per la benedizione dei campi e dei pratoi.  Da lì, attraverso il sentiero che s’inerpicava tra prato e bosco, si arrivava fin su alla chiesetta di santa Barbara ove  il sacerdote poneva fine alla celebrazione religiosa benedicendo i partecipanti. Oggi, anche quel sentiero è sparito: a fianco de “ Il  Cristo “ è stata costruita da tempo, una bella casetta.

indice

ALBERGHE, PNSIONS, TRATORIE ZLA DANTA DAL DOPOGUERA

L primo a nasce,cuj nome de “Albergo alle Alpi” sistmò zla ceda de Gise Caio, è sto chel cognosù dala dente dal posto, come “Chel d Rosura” in quanto solo ela, femna d so fi Gino, s l’à gestù e s l’à portò inante da btrava coga e da femna d laeghe vdute. Tra i prim “siore” – così era ciamade i turiste- clients triestine, vneziane e calc fameia d milanes e dopo d barese. Danta n’ofria autro c bele pasegiate, aria bona e solitudin: propio chel c mancea a chi c vivea in zità e così, an pr an, i se ritrovea e i portea davoi autra dente nueva. N tin a l’ota, a Rosuta, è gnude a mancé l stanze pr dà da dormì e ela  inpignea anche chele dl cede pì da vdin. A n zerto punto i à deciso d slongé e oza n tin la ceda e fei anche n tin d piazal su l’entrata e fei na bela teraza dante la sala da pranzo c vardea verso Sa Stefi , Costlisueign, Costa  l’Austria. Zal fratenpo era stada verta anc la tratotia dla Pinota, du zls so ceda nueva davdin la prima curva   e na agenzia d Trieste à scomnzò a mandà clienti pt dute doe li ativité albrghiere sben che, cula strada d Cianpdel in lavorazion, se scugnès fei l giro pr Padola. Do cede che era partide cu l’intnzion d fnile  pr uso d fameia, gnea intbeze modifichede pr ese usede come alberghe:. Naséa così “ Il Tre Pini” di Beppi ed “Il Cardo” di Cesare. Anche n’autra abitazion privata, chela d Meno Caio, gnea in parte, dorada a uso di siore cul nome d “Pension Dolomiti”, gestida  dala so femna Irma, de origine dantine, ma visuda jn Francia fin al so sposalizio, L svilupo turistico dal paese à avù n’autro.bon momènto cul nuevo skilift d Cianpo-Caradiés c ciamé dente dal Comelgo, dal Cadore e prfin dal’estero. Otra ai Tre Pini, anc Le Alpi e L Cardo gnea infate inpide d belghe e francese che s fadea turne d cuinds dì pr dì cui sci su da nei u feise gire pr vede Cortina u la Pustaria. Anc al Lago d Zestela era nasù n chalet e t podé mangé algo u divrtite a pscà trote e portatle a ceda pr feile sula plota…Pr ben puece ane à però durò sto bel acordo. Ades è rstò, ben ingrandù  dotò anc dal supèrfluo, l solo Tre Pini gno c laora tanto la Pizeria. D chietre trei, L Cardo è sto diviso in apartamente tra sues e fradia;  chetre doi è stade vndude e divise in tance mini apartamènte.  E’ da sprà che ilò da Bepi i tiena duro parchié che rué a Danta e n cetà gno mangé n piato d mnestra n sarà propio bel.  Vdaron se, tra i nos doigni u tra i foreste che conpra su cede e tarens, s farà inante caalcdun c crede zla posibilté d betse via n puece d bi euro dando vita a n’ativité adata a garantì decorose alberghe e generose paste  anche ai nueve siore c ruarà a Danta.

ALBERGHI, PENSIONI, TRATTORIE NELLA DANTA DEL DOPOGUERRA

Il primo a sorgere, con il nome di “Albergo alle Alpi, ubicato nella casa di Luigi Bozzo detto Caio, è stato quello localmente conosciuto come “Quello di Rosutta” in quanto solo lei,  moglie del figlio Gino, se  lo gestì e se lo portò avanti da brava cuoca e da donna di larghe vedute.. Tra i primi “signori – così erano chiamati i villeggianti- clienti triestini, veneziani e qualche famiglia di milanesi e successivamente di baresi. Danta non offriva altro che belle passeggiate, aria buona e solitudine: proprio ciò che mancava a chi viveva nelle città e così, anno per anno, loro si ritrovavano e si portavano appresso  altri turisiti nuovi. Un po’ alla volta,  a Rosutta vennero a mancare le camere per dare da dormire e lei, per farvi fronte, incominciò ad impegnare anche quelle della case più vicine. Ad un certo punto decisero di prolungare e sopraelevare di un po’ la casa e create anche un po’ di piazzale sull’entrata e costruire una bella terrazza prospiciente la sala da pranzo e con veduta su Santo Stefano, Costalissoio, Costa e l’Austria. Nel frattempo era stata aperta anche la Tratoria della Pinota, giù nella loro casa nuova nei pressi della prima curva del paese ed una agenzia turistica di Trieste incominciò ad inviare clienti per entrambe le attività alberghiere quantunque, colla strada di Campitello in lavorazione, si dovesse fare il giro per Padola ,Due case i cui lavori erano stati iniziati con l’intenzione di completarle ad usi famiglia, venivano invece  modificate per venir utilizzate come alberghi. Nascevano così il “Tre Pini” di Beppi ed “Il Cardo” di Cesare. Anche un’altra abitazione privata, quella di Domenico Caio, veniva, in parte, adoperata ad uso dei villeggianti con il nome di: “Pensione Dolomiti”. Gestita da sua moglie Irma, di origine dantina, ma vissuta in Francia fino al suo matrimonio. Lo sviluppo turistico del paese ha avuto un altro buon momento con il nuovo skilift da Cianpo a Caradiés che richiamava gente dal Comelico,  dal Cadore e perfino dall’estero. Oltre al Tre Pini, anche Alle Alpi ed Il Cardo venivano infatti riempiti di clienti belgi e francesi che si alternavano in turni quindicinnali per poter sciare in paese nostro o per compiere giri turistici per vedere Cortina o la Val Pusteria. Anche al lago di Cestella era sorto uno chalet e potevi fermarti per pranzare e divertirti a pescare trote e portartele a casa per preparartele poi sulla piastra. Quel bell’accordo è durato però per  ben pochi  anni.  Ora è rimasto dopo una buona ristrutturazione e dotato anche del superfluo, il solo Tre Pini dove  è attiva soprattutto la Pizzeria. Degli altri tre, il Cardo è stato diviso in appartamenti assegnati tra sorelle e fratelli; gli altri due sono stati venduti e divisi in tanti mini appartamenti. Rimane solo da sperare che lì’ da Beppi, riescano a proseguire l’attività perché arrivare a Danta e non trovare dove potersi sistemare per mangiare un piatto di minestra non sarebbe certo bello. Vedremo se, tra i nostri giovani o i turisti che stanno acquistando case e fienili, si farà avanti qualcuno che crede nella possibilità di risparmiare un po’ di bei  euro  dando vita ad una attività adatta a garantire decorosi alberghi e generosi pranzi anche ai nuovi villeggianti che giungeranno a Danta.
indice

IL DOPOLAVORO

Arone dal ’34; tenpe dal Fascismo. L partito, fra l tante robe prviste in favor di operai, avéa deciso da fei verde daprduto i “ Dopolavoro”, na spezie d’ostaria gno che i operai podè dì a bevse n goto e pasàse n’oreta doiando a carte. Anche a Danta é sto verto un, in Vilapizla, zla ceda d Iaco Pangon, cu la licenza btuda però a nome dla so femna, Tizia d Canton, parchiè c li c n’era n teserò al Partito fascista n podé otignìla a so nome.  Cun doi mobili vece e calc taulin,, portade du dala ceda d Rsina d Zilia, e n puece d gote, i à podù inbastì su l’ostaria c è stada verta dopo n viaduto d Tizia, a Sa Stefi pr otignì da Krater, a credto, do bote d vin. Cu sta Tizia, dona e crsuda zl’anbiente dl’ostaria d Canton, so pare Canton, iuteda anche da so fia Rina, l Dopolavoro s’è fato lolo nome, La todela era n fulmin tanto a srvì al banco come a portà l guantiere  fora dante, gno che. in pes, a soroio, pausea ciacolando e pipando i omi. La ceda, a piantera, avé    stanze bele e piene d lus come dute chele d Vilapizla e, pr d pì, tanto anpie c te podé insarzà su na sala da balo  in pueco tenpo e zienza fadia. Così era nasù l Dopolavoro c era gnù lolo l pì bel luego d’incontre e d spaso pr doign e vece. N ciapo d nostre tode se cetea, ogni festa, ilò, a balà cun doign c s’altrnea  ciantando, sonando fol, bason, chitare e mandolins. Anche l manifestazionute come l premiazion pr l gare d sci organisede dal Partito gnè fate ilò, cu la prsenza dal segrtario comunal, d chel dal Partito e anche dal Podstà, se n l’era n foresto c stade fora. Cu la morte d Tizia, subrntra, come titolar dla licenza, la fia Rin c rende l Dopolaoro senpro pì acoliente e inportante pal paese. Pasa i ane, canbia la situazion dla fameia, , canbia i paroign, canbia anche al so ulrmo nome: “ Bar al Cacciator” e, d pare in fi, lo portarà inante Edi fin a cuan che. gnù n bravo idraulico, l s creia na bela dita che i so fis riusicrà a ingrandì e rendla famosa in duto l Cadore. Zal fratenpo Rina avea lasò Danta pr l’Australia, sposada a Severino, un di Matea c era emigrò ladù com etre so fradis.  Chi c la rcorda incuei - e i à pasò  i “anta”! - n puè c rcordala parona dla scena zli ore bele dal Dopolavoro, zi bale gno c n la mancé mai, suportada dala bleza dl’età,  da n spirito d’iniziativa c atirea anche l so amighe.   Cuance doign u todele ne à lasade pr sparpagnase in giro pal mondo in zerca  d laoro é s’é fate,da lontan, na fameia e na patria nueva? D duce chese chié rcorde è rstade dla so dovntù, dla so vita da riedute, dl so féi parte  d chela  dal paese, dl  sintis bate l cuere sognando l son dl nostre cianpane?  Voietre, c me liedarede, s ede algo da contame su sti nose c é pal mond  ciameime, scriveime e farei in muedo da lasà algo c parle anc d luere sui libre u anche solo su chi apunte c sarà i mi ultme bocoign d rcorde dla Danta d’inclota.

IL DOPOLAVORO

Eravamo nel 1934; tempi del Fascismo. Il Partito, fra le tante cose previste in favore degli operai, aveva deciso di far aprire ovunque i Dopolavoro, una specie  di osteria dove gli operai potevan recarsi per bere un bicchiere e trascorrere una  oretta giocando a carte. Uno ne è stato aperto anche a Danta, in Villapiccola, in casa di Giacomo Pangon, con licenza intestata però a sua moglie Letizia di Canton perché lui,, non tesserato al Partito, non poteva ottenerla a suo nome. Con due mobili vecchi, qualche tavolino, portati dalla casa di Regina di Cecilia ed alcuni bicchieri han potuto allestire l’osteria che è stata aperta dopo d’un viaggetto di Letizia a Santo Stefano per ottenere da Kratter, a credito, due botti di vino. Con questa Letizia, giovane e cresciuta nell’ambiente dell’osteria di suo padre Canton, aiutata anche dalla figlia Rina, il Dopolavoro s’è fatto subito un nome. La giovinetta poi era un fulmine nel servire al banco come nel portare i vassoi all’esterno dove, in piedi ed al sole, gli uomini riposavano chiacchierando e fumando. Al pianoterra, la casa aveva stanze belle e luminose come tutte quelle di Villapiccola e, per di più, tanto ampie che le potevi adattare a sala da ballo in poco tempo e senza fatica. Così era nato il Dopolavoro, diventato subito il più bel luogo di ritrovo e di spasso per giovani e vecchi. Un gruppo di nostre ragazze si ritrovava lì, ogni festa, a ballare con i giovani che si alternavano cantando e suonando fisarmonica, contrabbasso, chitarre e mandolini, Lì venivano fatte anche  le manifestazioni come le premiazioni per le gare di sci organizzate dal Partito, alla presenza del segretario comunal, di quello del Partiro ed anche del Podestà, qualora non si fosse trattato dì un forestiero che abitava fuori. Alla morte di Letizia diventa titolare della licenza la figlia Rina che rende il  Dopolavoro sempre più accogliente ed importante per il paese. Passano gli anni, cambia la situazione della famiglia, cambiano i padroni, cambia anche il suo  nome che doventa “Bar al Cacciator ” e. di padre in figlio, lo porterà avanti Edi fino a quando, divenuto bravo idraulico, si crea onvece una bella ditta che i figli riusciranno poi ad ingrandire e rendere famosa in tutto il Cadore. Nel frattempo Riina aveva lasciato Danta per l’Australi, sposada a Severino, uno dei Mattea che era emigrato laggiù come altri suoi fratelli.  Chi la ricorda oggi- ed ha sicuramente oltrepassato gli “anta – non può che ricordarla padrona della scena nelle ore belle del Dopolavoro, nei balli dove non mancava mai supportata dalla bellezza dell’età, da uno spirito d’iniziativa che attirava anche  tutte le sue amiche. ” Quanti giovani o ragazze ci hanno lasciati per poi disperdersi in giro per il mondo in cerca di lavoro e si sono fatti, da lontano, una famiglia ed una patria nuova? Di tutti questi che ricordi son rimasti della loro gioventù, della loro vita da ragazzini, del loro far parte della vita del paese, del loro sentirsi battere il cuore sognando il suono delle nostre campane? Voi, che mi leggerete, se avete qualcosa da raccontarmi su questa nostra gente che è per il mondo già da tanto, chiamatemi, scrivetemi    e farò in modo di lasciare qualcosa che parli anche di loro sui giornali, su libri o anche solo su quegli appunti che saranno i miei ultimi stralci di ricordi della Danta di quei tempi.
indice

GIARGNé. BANCIUTE E, SUL CIANTòN, N GRAN TROVANTE
 

 In confronto al contrade de Sora la Gedia e Vilapizla, c avé l cede pì in pian, la Contrada Granda li avea pì in discesa e i portoni avea n salin d len tanto pì auto da na parte c da cl’autra. Così almanco parìa parchié c i era, in parte , cuerte da tera, Pì d’un era n tin rovinò a causa d chi c lo dorea pr pstà sora chelc moc u staip pr beti z fuego. Pr feite nsalin nuevo t’avé senpro dirito d’otignì dala Regola n bocon d pianta ! Pr fortuna n tin d’educazion era rstada zal pì dla dente e n mancéa li os de  disprezo cuan c se sintia d sti salins mal ridote, rovinéde proprio ilò gno che, cun duce i tenpe, i canaiute dla ceda se se btéa sntade, a vardà fora chié c s movea sula strada.  Proprio chesto era l bel d sti guargnés considrede cariegute pr i poiede u sntade ilò come in mostra, cu n cotùs ala bona, n pai d ueie spalancade su duto chel c s movea dante, sote e sora. Solo s i era n tin pì grandute, i podé lontanase dal porton e rué sul cianton d ceda e spiase intorne l mondo intiero. Rare li ote che i s’insognea d feise doi pase da pì in zerca d chel che solo i avé sintà parlà, ma mai visto,  Sul cianton d calc ceda po’, era na crodona auta che gné fora tra l muro e l taren, c parìa btuda là e sliséda e comda pr c se sente du i vece, cuas a fei la guardia ala ceda. Ma sti vece era pedo dla guardia e dal stradin:  cridéa senpro cuan c i vdea canaie sula strada parchié c, via pal dì, pasea vace,  tore, calc mul u ciaval, fède e pite e pr i pizi era dute ocasion pr feise mal. Cuan c è stad fate i marciapiés è sparude anche cl crodone piens chelc ota d minerai c ludìa, cetade isolade in medo ai pras ncamò al’epoca dal rifabrico. Toloste via chese, é gnud fora l banciute , btude dante l cede e se à scomnzò a vedle , a dute li ore, cun canaie bicede du a dormì u sntade a ciapà soroio. Sul tarde, inante c dés sote al soroio, ciapéa  inveze posto l fémne che, cu na scorziata d pizi intorne, s la contea.Pì d’una usea l tabaco da nas e t sintìa l’odor duto intorne. Su etre bance, anche i omi rivivea momente d vita zi cantters e sul dighe fumando la pipa u zigarete fat su a man cu l “cartine” e l tabaco  consrvò zla so  adata scatoluta. Daliote t sintìa n profumo diverso: calc paesan era ruò da forabia e avéa portò u n zigàro u tabaco “da siore”. Era un di momente c canbiéa anche chel c i se contéa e i era così contente pr cal fortunò che i dispiasìa solo pr al soroio c sconparìa e btea fin al’incontro n tin fora dal comun.

GRADINO (sulla soglia d’ingresso). PANCHINE E. SULL'ANGOLO DELLA CASA, UN GRANDE TROVANTE  (masso tondeggiante).

In confronto alle Contrade di Sopta la Chiesa e Villapiccola, che avevano le case più in piano, la Contrada Grande le aveva più in discesa ed i portoni avevano un gradino in legno tanto più alto da una parte che dall’altra. Così almen pareva perché erano, in parte coperti da terra. Più d’uno era un po’ rovinato a causa di chi l’usava per spaccarci  sopra qualche pezzo di ceppaia o  tronco per gettarli nel fuoco. Per farti un gradino nuovo avevi sempre diritto d’ottenere dalla Regola un pezzo di pianta. Per fortuna un po’ d’educazione era rimasta nel più della gente e non mancavano le voci  di disprezzo quando si sentiva di questi scalini mal ridotti, rovinati proprio lì dove, con ogni tempo,  i ragazzini della casa si mettevano  seduti, a guardare fuori quel che succedeva sulla strada. Proprio questo era il bello di questi gradini considerati seggioline  per i più piccoli distesi o seduti come in mostra, coi vestitini alla buona, un paio d’occhi spalancati su tutto ciò che si muoveva lì davanti, sotto e sopra. Solo se un po’ più grandicelli, potevano allontanarsi dal portone e giunger fino all’angolo di casa per vedersi attorno il mondo intero. Rare le volte che si sognavano di far due passi in più alla ricerca di ciò di cui  solo avevano sentito parlare, ma mai visto.  Sull’angolo di qualche casa, c’era un grande sasso alto che sporgeva dal muro ed il terreno: sembrava sistemata lì e levigata e comoda perché possan sedere gli anziani, quasi a guardia della casa. Questi  però eran peggio della guardia e  dello stradino; li sgridavano sempre quando vedevano bambini sulla strada perché, durante il giorno, reansitavano mucche, giovenche, tori, qualche cavallo, pecore e galline e, per i piccolim eran tutte occasioni per farsi male. Quando sono stati fatti i marciapiedi, son spariti anche quei massi talvolta pieni di minerali lucenti, rinvenuti isolati in mezzo ai prati ancora ai tempi del rifabbrico. Eliminati questi, sono apparse le panchine, poste davanti alle case e si è incominciato a vederle, a tutte le ore, con bambini stesisi a dormire o seduti a prendersi il sole. Sul tardi, prima che tramontasse il sole, erano invece le donne che, attorniate da una  caterva di piccoli, vi prendevano posto e se la raccontavano. Più di una usava il tabacco da naso e  ne sentivi l’odore tutto attorno. Su altre panchine, anche gli uomini rivivevano momenti di vita in cantieri e sulle dighe fumando la pipa o sigarette preparatesi a mano con le “cartine” ed il tabacco conservato nell’apposita sua scatoletta. Talvolta tu sentivi un profumo diverso: qualche paesano era giunto da fuori ed aveva portato o un sigaro, o tabacco “da signori”. Era uno dei momenti in cui si cambiava anche ciò di cui parlavano ed eran così contenti per quel fortunato che si sentivano dispiaciuti solo per il sole che scompariva e metteva fine  a quell’incontro un po’ fuori del comune.
indice