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Ricorde dla Danta d'ignere - Ricordi della Danta di ieriTutti ricordi dell'autore sui vecchi mestieri, sull'inizio dell'attuale urbanistica cittadina, sulla vita e gli usi e costumi del paese vengono raccolte in questa pagina ricca di aneddoti. Tra i ricordi una sezione viene dedicata a "ciò che non si fa più". |
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Chel che incuei n s fa pì - Ciò che oggi non si fa più La sezione raccoglie racconti e curiosità suIle cose che non ci sono più e sulle cose che non si fanno più, in una Danta antica illustrata con estrema abilità per consentire di immaginare la vita, i mestieri ed i luoghi descritti. |
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Paesane
e foreste è duce abituede a dì a spaso pr " L Spole ",
na strada bela ch parte in ciò d via Gera, ilò gno ch la s divide
da chela ch va du a Palù. Fin ai ane sesanta t podé passà
cu n motocaro e, d'inverno, cu na lioda pr portà in paese legne u fien,
Z chi ane, pr la scarsité d'aga, è sto deciso d rifei cun tube
n tin pì greign l'acuqdoto ch paséa sote. E' sto afidò
al Pangon l'incarico d sostituì i tube e ciapà anche n tin cl'aga
ch gné su anch a monte dka vasca d racolta. Dopo avei scavò
in profondità, i rua a cetà i tub vece. I continua a dì
inante a cal livel e, na dì, i s ceta cu na fila d trei, quatro e bocoign
d len da n metro, sbusede fora pr fora. Era med marzide e, anch volendo, n
t podé salvai. L Pangon, com duce i vece, savé ch'era i tube
dl'acquedoto, l vecio, fato cun stange taiade a n metro d longeza, sbusede
fora pr fora da gran truele azionade da omi, e po' poiede zal scavo e tacade
insieme cula creda. Zl cede, dute l femne lorea e cudìa dorando i file
btude intorne al "spolete", cilindre vuete in medo com ch gnè
fare chi bocoign d stange, solo ch esendo pì greign li ciaméa
"spole". Così l'acquedoto fato con spole, a do nome ala "strada
dl spole", inquei ciamada solo "L Spole". E la pì bela
pasegiata ch Danta ebia, duta in pian, cun pozues ch t fa onbrìa d'istade,
t'incanta cul neve. L "Percorso vita" , s t vues feilo, t porta
a sistite doign , liegro, valido. |
LE SPOLE: UNA PASSEGGIATA Paesani
e forestieri sono tutti ormai abituati ad andare a passeggio per " Le
Spole", una bella strada che parte in fondo a via Gera, nel punto dove
si divide da quella che scende a Palù. Fino agli anni sessanta tu ci
potevi transitare con un motocarro e d'inverno con una slitta per trasportare
in paese della legna o del fieno. In quegli anni, per la scarsità d'acqua
potabile, venne deciso di rifare con tubatura di maggior volume l'acquedotto
che vi passava sotto. Al Pangon venne affidato il compito di sostituire i
tubi e raccogliere anche un po' di quell'acqua che sorgeva anche nel terreno
posto a monte della vasca di raccolta. Dopo aver scavato in profondità
giungono a trovare i tubi vecchi. Proseguono a scavare a quel livello ed un
giorno si trovano con una fila di tre, quattro lunghi pezzi di legno, bucati
da una parte all'altra. Avevano il legno mezzo marcio e, anche volendo, non
potevano salvarli. Il Pangon, come tutti i vecchi, sapevano che si trattava
dei tubi dell'acquedotto, il vecchio, fatto con tronchetti tagliati ad un
metro di lunghezza, bucati da una parte all'altra con grandi trivelle azionate
da uomini, e poi posate nello scavo ed unite l'una all'altra con la creta. |
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L
STRADA DLA TOT |
LA
STRADA DELLA TODT |
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LA
CEDA DLA BERTA Tra i ultme rcorde dla Danta vecia. Solo chèi ch à pi' d stanta ane pué rcordase dla ceda dla Berta ( gno ch era nasude Tavio, Bai, Sualdin). Era bela, granda, fata cun tin d muro sote gno ch' era inante stala e ch in ultmo srvia inveze solo pr bet via atreze, legne, pals da fien. Sora era duta d len, cun bel fonestrute e n gran cuerto cun sandoloign. T dea su pr d fora, pr na sala d len e t ruea z n piol cun sponde dut lorade e intaiede, ma t l podè vede così solo d'inverno parchiè ch s no li era senpro piene d lanzues u roba d l'orto btuda a suié: maneile d lin, barbabietole, rai, fa e zede. Cheste era l robe ch, pr nei canaie, valé pi' d duto. D sconto, tntone senpro da dì su, robà algo e scanpa z chelch cianton a rodié com se s fos infamntade. Ma l pi' dli ote era solo pr feis vede bule tra d nei. La ceda s cetea tra chele di Boze, di Brsan e di Nodare e la strada d Cianpdel la dividea dal rialzo gno ch era la fontana e la ceda di Lutins. N pasea machine e n'era bisogno né da slargé la strada, né da fei na pieza, ma cun tanto ch'al Comun avè fato pr elimine l cede d len, una propio ilò era n veiro pricol. Dal 1931, in Comun. s scomenza a discute sul muedo da demolila; dal 1934 se s bete d'acordo sul prezio, ma n s riesce a cetà i sode; finalmente zal duign dal 1941, in piena guera, cu n pagamento d 4500 franche, sparis l'ultma gran ceda dla vecia Danta. S slargia così la pieza e s verde da pi' la strada d via XXIV mai. Dies ane dopo vien tolosto via l'orto di Nodare, eliminò l duego dl bale dl'ostaria d Cantòn e verta la strada, a fondo cieco, d via Rossin. Zi prime ane sesanta chesta vien colgada a via Marconi cun cal tin d salita a fianco dal munzipio.. N l'é propio comda, ma é senpro na strada verta ch vien fata a senso unico cuan ch s svolge gare d corsa a pe, in mountain bike o pr dà posto ai banche pl sagre d san Roc u dla Puritè. |
LA
CASA DELLA BERTA Tra gli ultimi ricordi della Danta vecchia. Solo coloro che hanno più di settanta anni possono ricorsarsi della casa della Berta (dov'eran nati Ottavio, Osvaldin, Liberale). Era bella. Grande. Fatta con un po' di muro sotto dove prima c'era la stalla e che alla fine serviva invece solo come riparo per gli attrezzi, la legna, i pali da fieno. Al di sopra era tutta in legno, con belle finestrelle e con un grande tetto in scandoloni. Ci salivi dall'esterno, attraverso una scala in legno e giungevi su un poggiolo con sponde tutte lavorate ed intagliate, ma così le potevi vedere solo all'inverno perché altrimenti erano sempre piene di lenzuola o prodotti dell'orto messi ad asciugare: mannelli di lino, rape, piselli, fave, barbabietole. Eran queste le cose che, per noi bambini, valevan più di tutto. Di nascosto, tentavamo sempre di salirvi, rubare qualcosa e scappare in qualche angolo a rosicchiare come se fossimo affamati. Ma il più delle volte era solo per farsi vedere "bule" fra di noi. La casa si trovava tra quelle dei Bozzo, dei Bressan e dei Nodaro e la strada per Campitello la divideva dal rialzo dove c'era la fontana e la casa dei Luttin. Non transitavano macchine e non c'era bisogno né di allargare la strada, né di fare una piazza, ma con tanto che il Comune aveva fatto per eliminare le case in legno, una proprio lì era un vero pericolo. Nel 1931, in Comune, s'incomincia a discutere sul modo di demolirla; nel 1934 ci si mette d'accordo sul prezzo da corrispondere ai proprietari, ma non si riescono a trovare i fondi necessari; finalmente nel giugno 1941, in piena guerra, con un pagamento di 4500 lire, sparisce l'ultima grande casa della vecchia Danta. Si allarga così la piazza e si apre maggiormente l'accesso a via XXIV maggio. Dieci anni dopo viene esproriato l'orto dei Nodaro, eliminato il gioco delle bocce dell'osteria di Canton ed aperta la strada, a fondo cieco, di via Rossin. Nei primi anni sessanta questa viene collegata a via Marconi con quel po' di salita a fianco del municipio. Non è proprio comoda, ma è sempre una strada aperta che vien ridotta a senso unico quando si svolgono gare di corsa a piedi, in mountain bike o per dar posto alle bancherelle in occasione delle sagre di san Rocco o della Purità. |
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L
TRINCEE DLA PRIMA GUERA e L VIVAIO. Duto l bosco da Cianpanele in su fin zal paese era sto btù sot sora tra l 1915 e l 1917 dai nos soldade che, considreda sta nostra zona come sconda linea d difesa, scavé trincee pr inpdì un chelch ataco di todese ch avé z man dute l zime d confin. Laoro inutile parchiè ch la disfata d Caporeto i à consntù d rué fin al Piave e al Grapa isolando duta la zona da ladù al nos confin. Dute l trincee, gno ch'era rocia n'era profonde nanch n metro, avé dante solo la tera d riporto e srvìa apena a sconde n tin i omi ch fos stade inze. Sbèn ch sèia pasade tance ane sti bude, longe chelch metro a sconda d taren e crode, ti cete ncamò prfin su pal Col. In paese t li vedé cul di'pal truei che dala curva d Tino pasa sot l cede d Sora la Gedia e davdin a chi tabiarute ch t cetéa sula strada d Palù. L trincee ch è stade in longo pi' visibili d dute era chele d cal pian tra l do curve d Cianpanele gno che, ai tenpe dal fascismo, i avé fato n bel vivaio usando duta cla tera che i avé smoso pr feile. Nei canaie done speso fin ladù cuan ch'era i fonghe e, pr tanto tenpo s vdé ncamo li ere cun tante piantute: pozué u vdì, d'auteza diversa a sconda d cuan che i era stade somnade. Rué fin ladù n'era difizile e l mare ne lasé di' zienza la paura ch dona a perdse parchié ch ne bastéa ciapà la strada d Cianpdel e t'era lolo a ceda. L a scusa d podei cetà doi dalete u chelch pulcinuto era senpro n bon motivo pr pasase ladù do bel ore e magare coie anche n puece d giadne e fradne. Inclota n'era infati li auto ch t vede ferme ades, d longo in su, cu dente ch gira pr i bosche cun o zienza l permeso pr coie fonghe. |
LE
TRINCEE DELLA PRIMA GUERRA ed IL VIVAIO Tutto il bosco da "Ciampanele" in su fino in paese era stato messo sossopra tra il 1915 ed il 1917 dai nostri soldati che, considerata questa nostra zona come seconda linea di difesa, scavavano trincee per impedire un qualche attacco degli austriaci che avevano in mano tutte le cime di confine. Lavoro inutile perché la disfatta di Caporetto ha consentito loro di giungere fino al Piave ed al Grappa isolando tutta la zona da lì al nostro confine. Tutte le trincee, dove c'era roccia, non erano profonde più di un metro e davanti avevano solo terra di riporto e servivan appena per nasconder un po' gli uomini che ci fossero stati lì dentro. Quantunque sian già trascorsi tanti anni, questi buchi lunghi qualche metro in rapporto a sassi e terreno, li ritrovi ancora perfino sul Col. In paese li vedi lungo il sentiero che dalla curva di Tino passa sotto le case di Sopra la Chisa e vicino ai fieniletti che incontravi sulla strada per Palù. Le trincee rimaste visibili più a lungo di tutte sono state quelle del piano tra le due curve di Ciampanele dove, ai tempi del fascismo, avevano creato un bel vivaio usando tutta quella terra che avevano smosso per costruirle. Noi ragazzi scendevamo spesso fin lì quando c'erano i funghi e per lungo tempo ancora si vedevano le aiuole con tante piantine: abeti rossi e bianchi, d'altezza diversa a seconda del tempo in cui erano stati seminati. Andar fin lì non era difficile e le madri ce lo permettevano senza il timore che ci perdessimo perché ci bastava mettersi sulla strada di Campitello e s'era subito a casa. La scusa di poter trovare due gialletti o qualche porcinello era sempre un buon motivo per trascorrere laggiù due belle ore e raccogliere magari anche un po' di mirtilli e di fragole. In quella volta non c'erani infatti le auto che ora vedi ferme, lungo tutta la strada, con gente che gira per i boschi e che, con o senza il permesso, va a raccogliere funghi. |
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L
VECE OSTARIE I pi' vece s rcordarà d doe: una d Iaco "dla Pinota",su z pieza, cl'autra, d Canton, du pla riva tra Bardasa e Nodaro. Iaco, tornò dal'America cu n puece d sode s'avé btù su st'ostaria ch dadé anche da mangé e da dormì. Pr fei tornà i conte e betse via algo à pnsò ai foreste ch podé gnì a Danta e se à fato publizité com ch mostra la foto che s pué vède in "Galleria". Pi' tarde, cu l s'avé fato na ceda nueva davdin la prima curva dal paese, à portò ladù l'ostaria, cu n bel spazio intorne, ma n'era pi' al centro dal paese! Pasò n tin d tenpo, fiteda e useda anche com pnsion, s'avé n tin svilupò. Morte però i vece, fi e nods ch era dude a sta a Blun à vndù la ceda. Rcorda ch i tenpe solo l'unica bela meridiana dal paese che ablis la fazada. L'ostaria d Canton inveze avéa na so atrativa special. Cul spazio dante ceda e n tin dl'orto cedù da Piero Nodaro, l s'avé fato l duego dl bale. Ogni domenia, ogni festa, t'avé ilò doign e vece ch doiéa, vardéa e comntéa. Calme,serie e trancuile chei ch dé ai vintiun, pi' scadnade chei dal quarantoto, cu l quatro bale e l balin in medo, btude a forma d cros. Ie l vdeo e sintìo a sciocà cuan ch i le ciapéa in pien e era n urlo se, al primo colpo, i ciapea l balin: cla scuadra avea bel vinto! A chietre rstea da pagà l vin btù fora. Speso l fol ciamé dente e duce ciantea. I gote d vin crséa sul balcon ilò dante e sui taulins dinze. S movimntéa l Cianton e man man parì ciapà aria d festa. L duego gné na pista da balo e solo la nuete lo fadé pionbà zla calma.Ades "al duego" é strada, zal local d Canton sta l so node e chel d pieza é gnù na bela botèga. |
LE
VECCHIE OSTERIE I Più anziani si ricordano di due: una di Giacomo "della Pinota", posta lassù nella piazza, quell'altra di Paolo "Canton", sotto la discesa tra Bardassa ed i Nodaro. Giacomo, ritornato dall'America con un po' di denaro, si era aperto una osteria in cui si fornivano pranzi e cene ed anche camere per dormire. Per fare in modo che tornassero i conti e ne uscisse anche la possibilità di risparmiare qualcosa, ha pensato ai turisti che avrebbero potuto giungere a Danta e si è fatto promotore della pubblicità che è evidenziata dalla foto del 19.. e che è possibile vedere in "Galleria". Più tardi, quando si era fatto costruire una casa nuova nei pressi della prima curva del paese, ha trasferito laggiù la osteria, con attorno un bello spazio, ma non si trovava più al centro del paese! Trascorso un po' di tempo, affittata ed usata anche come pensione, aveva avuto un po' di sviluppo. Morti però i vecchi tutolari, figlio e nipoti che erano andari ad abitare a Belluno, hanno venduto la casa. Quei stempi sono ora ricordati solo da quell'unica bella meridiana che si vede in paese e che ne abbelisce la facciata. L'osteria di Paolo Canton aveva invece una sua attrattiva speciale. Utilizzando lo spazio che c'era davanti alla casa ed un po' di quello dell'orto cedutogli da Pietro Nodaro, egli si è costruito il gioco per le bocce. Ogni domenica, ogni festività, tu potevi vedere lì giovani e vecchi che giocavano, osservavano e commentavano. Calmi, seri e tranquilli coloro che chiudevano la partita (nel normale gioco di bocce) ai ventuno, più scalmanati quelli che la chiudevano al quarantotto, con le quattro bocce ed il pallino in mezzo, sistemati a forma di croce. Io li vedevo (dalla finestra di casa) e sentivo lo schioccare della boccia quando le colpivano in pieno e si tramutava in un urlo se, al primo colpo veniva colpito il pallino: quella squadra era già vincitrice. All'altra squadra non rimaneva che pagare la portata di vino che era stata messa in palio. Spesso la fisarmonica fungeva da richiamo e tutti cantavano. Crescevano i bicchieri di vino posati sul davanzale della finestra e quelli sui tavolini all'interno. Si movimentava il Cianton (le case di quella parte del paese) che man mano pareva assumere aria di festa. Il gioco diventava una pista da ballo e solo la notte lo faceva piombare nella calma. Ora lo spazio del "gioco" è diventato strada, nel locale di Canton vi abitano le nipoti e quello della piazza è diventato una bella bottega. |
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I
prime d novembre, pr nèi Comliane, à senpro volù di:"
E ora d tornà a céda, dì a saludé i so morte,
scanbiase do idéé sul laòro in miniéra o sul dighé
- bel fnù causa l névè e l frèido- contàsla
sui sòde btud via z la stasòn e su cuanto ch i durarà
zienza bisogno d tornà a ccmprà solo cul "libreto".
Ma pr i Morte s spitéa anche la Fiéra d Sa Stefi ch duréa
trèi dìs. Ilò ruéa dente da dut l parte pr vènde
e conprà vace, vdì, porzì, framènta, vstis, roba
da corédo, pr inblì céda, canbre e, pl cusine, tece,
pignate, piate. T ceré prfin dolze: zucar d'orzo, caramele, cicolata
e mandolate. Pagògna e Saltamento, ch n'ota ala stomana ruéa
anche su a Danta, portéa anch in fiera, n tin d fruta frèsa
e po' bagige, castègne, caròble e stracaganase. Pr dute l strade
t sintìa odòrs forte d craut, tripe e bacalà ch gnéa
parcéde pr chi ch mangéa ladù, ma anche pr ése
portàde zl céde di paes davdin. |
I
MORTI, LE FIERE DEI SANTI, I CADUTI I
primi di novembre, per noi gente del Comelico, hanno sempre voluto dire: "E'
ora di tornare a casa, andare a salutare i propri morti, scambiarsi due idee
sul lavoro in miniera o sulle dighe - già finito a causa della neve
e del freddo - raccontarsela sul denaro messo da parte nel corso della stagione
e su quanto potrà durare senza che si presenti la necessità
di dover tornare ad acquistare solo con il "libretto". Ma, per la
ricorrenza dei Morti, si attendeva anche la Fiera di Santo Stefano che durava
tre giorni. Lì giungeva gente da tutte le parti per vendere e comprare
mucche, vitelli, maiali, vestiti, ferramenta, biancheria per il corredo o
cose per abbellire le camere e anche le cucine: pentole, padelle, piatti e
perfino poi dei dolci: zucchero d'orzo, caramelle, cioccolate e mandorlati.
Pagogna e Saltamento (nomignoli di due ambulanti), che giungevano anche a
Danta una volta alla settimana, portavano anche laggiù, come di solito,
un po' di frutta fresca e noccioline americane, carrube, castagne e castagne
secche. Lungo tutte le strade percepivi un forte odore di crauti, trippe e
baccalà che venivano preparati per coloro che li avrebbero mangiati
lì giù, ma anche per essere poi portati nelle case in tutti
i paesi attorno. Nel giorno dei morti, nelle chiese, venivano celebrate tre
messe. La prima avveniva sempre alle cinque del mattino e vi partecipavano
tutti quelli che poi avrebbero dovuto portare qualche animale laggiù
in fiera. Alla seconda, celebrata subito dopo, tu vedevi le donne che avevano
già lavorato per preparare la colazione o che erano già state
in stalla per governare le mucche. La terza, quella cantata, veniva celebrata
alle otto e, se non aveva ancora tanto nevicato da coprire le tombe, terminava
con una visita in cimitero ed una benedizione del sacerdote per tutti quelli
che erano sepolti lassù. |
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L
PAN D' ORO N'ota la pi' gran parte dl fameie avé tanc fis e, in zerte periode, n t'i vdéa pi' a borbiné pl strade parchié, cu li nflienze u l tante malatie contagiose di canaie, i se l paséa da un al'autro e pr stomane intiere i era sarade z ceda. Fin ch'era la paiana u l morbilo n'era pricoi, ma se s teméa l"grup" n s'avé ch da prié duc i sante ch n'al entre z na ceda. N'era stada ncamò invntada la varola e basté rspiré n'aria infeta e tanto i vece ch i pithi podé ciapà sta malatia.. Pr chesto, cuan ch s sintia ch un avé l col gionfò, mal e dificoltà d rspiroo n s dé pi' z cla ceda fin ch n fos ruò l dotor. S al parlea d grup, s dové lolo spande la os pr ch nsuign pase pr cla ceda. Z una, propio davdin la mia, l'ave ciapò na todela, sué d n nos amigo d dueghe .Lolo ie, come duc i canaie dal nos Cianton, sot ciai. La rieda muere. N sei pr cuanto dopo seia duda inante cla bela storia dal pan d'oro ch l'avrà mangiò in Paradis, ma l dspiazer pal so mencé gné cuerto dal' idea d cetate anch tu gno ch t mangé senpro, insieme ai angioi, pan d'oro. Forse al fato ch pan veiro t mangé pueco e ch d'oro i t didé ch'era solo l'ostnsorio e l calice usede pl fest grande, t fadè ntrà z n mondo d sogno gno ch la to fantasia t fadé nodà in medo a lus, angioi d duce i colors, canaiute che, com te, doiéa aped luere zal bel, zal ciaudo, z strade e pieze piene d fiore e d soroio. Incuei n sei se calchdun conte ncamò ai so fis sta storia, ma pr nei era stada la maniera pi' inocente da n feine pnsà ala morte come a n bruto momento d dolor., ma un allegro vive tra chi nughi dorade ch vdone cu dé du l soroio. |
IL
PANE D' ORO Una volta la più gran parte delle famiglie aveva tanti figli ed, in certi periodi, non te li vedevi più a giocherellare per le strade perché, con le influenze o le tante malattie contagiose dei bambini, se le passavano dall'uno all'altro e, per settimane intere, rimanevano chiusi in casa. Fin che si trattava della pertosse o del morbillo, non c'era pericolo, ma se si temeva la difterite non c'era che da pregare tutti i santi che non entrasse in una casa. Non era stata ancora inventata la vaccinazione e bastava respirare un'aria infetta e tanto i vecchi che i piccoli potevano venir colpiti da tale malattia.. Per questo, quando si sentiva che uno aveva il collo gonfio, male e difficoltà di respiro, non s'entrava più in quella casa fino a quando non fosse giunto il dottore. S'egli parlava di difetrite, si doveva subito sparger la voce perché nessuno passasse più per quella casa. In una, proprio vicino alla mia, ne era stata colpita una giovinetta, sorella di un nostro amico di giochi. Subito io, come tutti i bambini del nostro Cianton, rinchiusi sotto chiave. La ragazza muore. Non so per quanto dopo si sia raccontata a bella storia del pane d'oro che avrebbe mangiato in Paradiso, ma il dispiacere per la sua dipartita veniva coperto dall'idea di trovarti anche tu dove avresti sempre mangiato, assieme agli angeli, pane d'oro. Forse il fatto che di pane vero ne mangiavi poco e che d'oro ti dicevano essere solo l'ostensorio ed i calici usati nelle feste grandi, ti facevan entrare in un mondo di sogno dove la tua fantasia ti faceva nuotare in mezzo a luci, angioli di tutti i colori, ragazzini che, come te, volavano assieme a loro nel cielo, nel caldo, in strade e piazze piene di fiori e di sole. Oggi non so se qualcuno racconti ancora ai propri figli qiesta storia, ma per noi era stata la maniera più innocente per non farci pensare alla morte come ad un brutto momento di dolore, ma un allegro vivere tra le nuvole dorate che vedevamo nei tramonti. |
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MASCRADE
PR S.BASTIAN A parte la festa religiosa, ch era senpro tanto sintida dala dente, s spitea la mascrada com algo ch t tolèa via l sarò dl'inverno, l so freido, l so peso pr scugnei conprà cul libreto zienza savei pr cuanto ncamò i omi avrà dovà pnà pr cetase n posto d laoro. Ma cal dì finalmente ruea e, com z n ziel inuglò solo n tin d vento t fa vede l soroio, così sta dornada parì tol via dal ciò l tristeze e l preocupazion. A dì l veiro, scomnzè a parà fora bel dopo l feste: zl fameie s se dadea lontiera da fei pr contntà todele e doign ch gnè a vede n vecio scial dl none, n fazlèto d seda, n cotùs da canaie e, pì ch duto, roba d vludo u costume ala vecia. Duto l paese savè da chi ch s podè cetà ste robe e, soralduto, chi ch s lasè convinze de inprstatle. Ogni an però calchdun s cetèa dante na scusa u n rifiuto: la roba dorada da li, pla pasada mascrada, era tornada rovineda u sporciéda pl visite ali ostarie u pr al caminè su strade cun neve u mota. Ma, in chelch muedo, chi ch volèa cetea senpro l muedo d vstise in mascra; ala pedo, t dea com "bruto", cun "vòlto" oribile intaiò z ceda cu na taula d len curvada zl'aga ch coièa. Infate, la mascrada era fata dai "Bi" e dai "Brute".Chese vardè la sfilata pl strade dal paese cun sanpogne, canpanì e bastoigm e, dante i portoign dl cede, s frmea pr fei bacàn e spavntà chi ch stadea ilò dinze.T zrchea d scòrdi via pena ch t scomnzea a sintì l fol, l basòn, e chelch ota anche n violin e, pr dlibrate, t scugnèa ofrì algo a sti Brute. Intanto canaiute e riedute dante e po'todele-u pì d'un vstù da todela!- vardea l corteo dl Bele. Sarà sto da domandase senpro com ch, z sto nos paese, s podes cetà ncamò così tante bel stofe ch'era stade di vece.Ved po'sta dovntù ch pl strade bala, cianta, s busa e s braza era vede n'autro paese, n'autra dente; era n sintìs z n mondo ch n'avè lagrme propio com cuan ch t'insogne e t vede duto ch ludìs, duto ch e duego, duto ch profuma d bel e d bon. Ma era genaro e lolo cul ruè dal scuro, l mascre s ritirea z li ostarie u zal Dopolavoro gno ch i balè anch s'al pre n fadè d manco d racomandà al tode d n dì ilò parchiè ch l fadè picié. L strade tornè chiete, sole, piene inveze d profumo d crosti, l dolze dl sol sagre,di sposalizi,specialità risrvada ala bravura d n puec d femne.Nuete! Anch st'ota,era dude s. Bastian e la mascrada! |
MASCHERATE
PER S. SEBASTIANO A parte la festa religiosa, che era sempre tanto sentita dalla gente, si attendeva la mascherata come qualcosa che ti sollevava dal chiuso dell'inverno, da suo freddo, dal suo peso per essere costretti a comperare con il "libretto" senza saper per quanto ancora gli uomini avrebbero dovuto attendere prima di riuscire a trovarsi un posto di lavoro. Ma quel giorno finalmente arrivava e, come in un cielo ricoperto di nubi solo un po' di vento di fa vedere il sole, così questa giornata pareva toglierti dalla testa le tristezze e le preoccupazioni. A dir il vero, tutto incominciava a rasserenarsi già dopo le feste natalizie: nelle famiglie ci si affannava ben volentieri per accontentare giovinette e giovani che venivan per chiedere un vecchio scialle delle nonne, un fazzoletto di seta, un vestitino da bambini e, più che altro, stoffe in velluto o costumi alla vecchia. L'intero paese sapeva da chi si potessero trovare queste cose e, soprattutto, chi si lasciasse convincere a prestartele. Ogni anno però qualcuno si trovava davanti ad una scusa o ad un rifiuto: quanto era stato adoperato da lui, per la precedente mascherata, era stata restituita rovinata o sporcata per le visite alle osterie o per il camminare su strade con neve o fango. In qualche modo però, chi proprio lo voleva, trovava sempre il modo di vestirsi in maschera; alla peggio, ci andavi come" brutto", con un "volto" orribile intagliato in casa con una tavola di legno curvata nell'acqua bollente. Infatti, la mascherata era composta dai "Belli" e dai "Brutti". Questi aprivano la sfilata lungo le strade del paese con campanacci, campanelli e bastoni e, davanti ai portoni delle case, si fermavan per far baccano e spaventare coloro che ci abitavano lì dentro. Tu cercavi di farli allontanare non appena incominciavi a sentire la fisarmonica, il violoncello e qualche volta anche il violino e, per liberartene, dovevi offrire qualcosa a questi Brutti. Intanto bambini e ragazzine davanti e poi giovinette - o più d'uno vestito da giovinetta! - aprivano il corteo delle Belle. Sarebbe stato sempre da chiedersi come, in 'sto nostro paese, si potessero ancora trovare così tante belle stoffe che erano appartenute ai vecchi. Vedere poi questa gioventù che per le strade balla, canta, si bacia e s'abbraccia era vedere un altro paese, un'altra gente; era il sentirsi in un mondo che non aveva lacrime come quando ti stai sognando e vedi tutto che brilla, tutto ch'è un gioco, tutto che profuma di bello e di buono. Ma era gennaio e, col sopraggiungere del buio, le maschere subito si ritiravano nelle osterie o nel Dopolavoro dove si ballava anche se il parroco non faceva mai a meno di raccomandar alle giovani di non andarci lì perché avrebbero fatto peccato. Le strade ritornavano chiete, solitarie, piene invece di profumo di crostoli, il dolce delle sole sagre e degli sposalizi; specialità riservata alla bravura di un poche di donne. Notte! .Anche quest'anno se n'eran andati san Sebastiano e la mascherata! |
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MONTIE'
VACE E TORE Sot la Croda, Mlìn, Dignàs, Cécdo. Bisogna tornà ai tenpe cuan ch duto gné misurò cu l'arloio dal cianpanìn, cul soròio, cul feste di sante .E chèsto valéa pr i omi, pl béstie, pr i cianpe. L soròio e na zima dn monte t dadé l'ora: -cuadrante zienza spère|!- che, pur ch n'al fos inuglò, n pardé mai la carica. L cianpanìn t lo sintìa zal pi' scuro di bosche, cul gionfdo, cula tanpesta,d dì e d nuéte. I Sante n te podéa dsmntiài pl cianpane, pl mèse,pl funziòn ch pizi e grèign spitéa anche pr al portà d'algo d nuévo zal tran tran dal paese. Dèa via l nèvè e t parcéa i cianpe, t porté ruéi, t cotéa i orte. Pl rogaziòn t scomnzéà a informate s ruéa l ciargnél cul smènze dl vrdùre da bète zi orte; i bacàne s dadé da fèi pr cétà i pastors che avé da portà a pason l so bestie e savèile così in man sgure. S la stasòn n'era stada bona, pèna a mtà duign t'inpiantéa l patate. Era i ultme dis ch l mandrie déa a pasòn d'inrorne l paese e, come l pozlònél btù sul cuerto d na céda vué dì ch l'è fnìda, così cui fior d saéta tacade sui corne tornéa in paese i doi pi' bi esenplars dla mandria. Pr san Duane saréa l Casèlo e s vardéa l malghe: n viàdòn da fei pr rué fin là, cun vace ch daliòte pugnéa, s scornéa e, conastre, s piantéa. La casèra pì' davdìn, era chela d SOT LA CRODA, proprietà d Calalzo. Cul so prmeso l Comun d Danta podé bète ilo chèlch so béstia solo s la casèra n'era duta ocupèda, Dal paese, s dé su pl Palude, Salvra, Zstéla fin al Paso e dopo, pla strada militar vecia, otra i pras, fin a cal truéi pì' strènto ch t portéa zal bosco. A puéce metre dala casèra, pèna n tin fora, t cetéa cal lagùto gno ch s spéciéa cl crode da gno ch, sècoi fa, era partìda la frana ch à inpù la val gno ch adés è fata su Padola. Davdìn la malga gnè du n gioazùto e l vace, dopo cla caminadòna, dé lolo a bève. Cl'aga è uséda adés dal nos Comùn che, cu la concesiòn d chèl d Calalzo e dlo Stato, à fato n acuedoto ch'à risolto l'eterno problema dla scarsité d'aga ch ne tormntéa.N'ota consgnéde l béstie ai pastors, s torné verso céda e s'avéa duto l tenpo da contnplà i pras ,i barcùte e chi pì'grèign, fate duce d lars, l piante da foia, gilie, bocalète, arnica, san Duane, ciavèi dal Signor, margarite, Adamo-Eva dalute e viola. Intanto t ruéa z cal gran pianòro e t parìa da zavarié, inciodò a vardai. E, proprio ilò, su chi pras, d ritorno da na pasegiata al lagheto dl'Aiarnola s'é frmò anch al Papa, in cal dopo mdodì che,pr ore e ore, l'à podù gusté l nostre blèze, i nos silenzie, l nostre zime ch rcordéa forse i so monte, la so tèra lontana. L'avé pèna lasò cal paradisiuto ch al s'à cetò dantse Virginio d Ristide, caporegola d Danta, ch déa a fonghe e à parlò n tin apéd li e à avù la so bndziòn.Da ilò a sant'Antone ormai é puécia strada ,pèna n tin èrta: z zinche minute t és bél su chela sfaltada. Così è sto pr al Papa,in cal 15 d luio dl '88, scondo dì dl so vacanze in Cadore- N'ota ilò, s sintìa cuas a cèda anch chi ch tornéa dopo avèi portò l vace a Sot la Croda. MALGA MELIN - N puéce d Danta portè l so vace a Mlìn ,etre a Dignàs.Parchié? Cuan ch Danta n'era Comun, i dantins apartignìa a Sa Ncolò e Sa Stefi (Ciadàda) N'ota stacàde da chèse, la dente vanté diritti n'ota dal'un, n'ota da cl'autro. Pr definì ala mèio a chi rivolgese, i avé stablù che la parte auta dal paese ch déa dal "tolpo" dla fontana" in su, i apartignìs a Sa Ncolò; dal "tolpo"in du, a Sa Stefi..N'è pi' du bèn cuan ch n òn dé " Cuco", cioè déa a sta da cl'autra parte dal tolpo, z céda dla fèmna. Na grana dopo l'autra!!! N piévàn, ch'inclòta podé e fadé duto, consideràde i cognome e visto cuai tra chèste famèie stadé pi' sora u sote l tolpo, à stablù che i Doriguzzi e Maddalin fos considerare come originari d Sa Ncolò e i Menia, Mattea e Tosi invéze d Sa Stèfi. Ai prime à spitò pras, bosche, casera d Mlìn; a chi étre pras, bosche, casère in Val Visdende .Cun Sa Ncolò s'è ruéde,cul tempo, a salvà diritte solo sula casèra; cu sa Stefi e sa Piero e relative Regole s'à dovù sostignì procèse ch à durò pi' d zento ane prima ch fos ricognosùde i so dirite soralduto sui provénte dal taio di bosche. Chi ch avè dirito d montié l so bestie fin in MLIN dové portale fin a Cianpdel pr al bosco, dopo fin in Tanbar pla statal. Da ilò t ciapea chela ch t portea verso Pian dla Mola. La strada é senpro pi''erta, ma è largia e n dà problème. T véde a fianco-e t par d tociàlo- l Longèrin; oltre l punte dal Palonbìn e, drèto su, Zima Valona e l Cavalìn. L cianpèi è spazioso e la casèra è duta in movimènto pr sistmà omi, béstie, atreze pr bèt via l late e podèi fèi onto,scuéta e formai.N'ota cognosù l mistro, racomandàde l bestie ai pastors e btù z bocia algo ch t'avé portò davòite, n t rstéa ch ciapà da nuévo la strada d céda. DIGNAS e CECDO. Com ch èi bél dito, dut doe è in Visdende, tanto pi' lontane, ma soralduto cu na strada pi' dificile pr rué parchié ch bisogné di du a Sa Stefi cul bestie traverso al Col di Morte ch'é d sgùro pedo ch al truéi dla Trdùda tra Cève e Cianpdél. N'ota ladù,, pasade Cianpolongo, Mar e Pardnèi , t ruea gno ch'al Cordòl s bicé zla Piai e da ilò partìa cla strada erta ch t portéa su in Zima l Cianà. Bestie e cristièign, strache, cu la lènga fora, ruéde a Zima l Cianà, ciapé fiò: s'èra vèrta la Val Visdende cul gran pian sarò dal Peralba e dal zime d confìn cu l'Austria. Al bivio, t lase la strada pr Costa d'Antola, t pase l ponte e, pr Pra dla Frata, prima su cal longo pian ch dadé ristoro e dopo pal bosco, t fadé li ultme fadìé prima d rué al bivio d Londo. Dignàs era ncamò abastabza in su, ma t parì da sintì manco fadìa anche a sprème l vace ch inveze stenta senpro da pi' a di inante. Li ultme ranpe e t'era z casèra. S ripétéa anch ilò, come Sot la Croda, com z dute l malghe: consègne, racomandaziòn salude e, fata n tin d marénda sul banciùte btùde ilò dante u davdìn la cros auta d lèn, n grupo a l'ota, ciapé la pì' curta pr fèi manco strada e guadagnè ténpo pr tornà a céda. CECDO. E' l'unica malga ch è solo d Danta. Ilò t portéa solo l vdéle e pr chesto la vita di pastors ch dové sta lasù era pi' dura d chèla gno ch s tignìa l vace; infate, pr avèi l late e l formài i scugné dì u a Cianpobòn u, pasando pr Pian Marcé, a Monzòn. La casèra è stada sistmàda pi' d n'ota a causa dl lavìne che d'inverno gné du da Croda Nègra. Su chèsta, ch i vece didé ch l'èra piena d fèro pal so colòr scuro scuro, s dsciariéa durant i tenporà, tanc fulmin e i pastors avé l so bél da fèi pr fèi rientrà prèsto l béstie cuan ch scomnzéa a tonà pr ch nl sèia colpìde u ch scanpando, n l vada a fnì zi precipizie. La cedùta, gno ch vivé i pastors, era porèta, ma basté pr fèi da mangé e dormì al cuèrto, zal ciaudo e cu la lus dada dal carburo. Solo sul tardo dopoguèra, la Regola avè btù a di na turbina ch dadé lus cu l'aga dal gioazuto ch srvìa a ntà l capanòn gno ch stadé l vdéle. Così zla cédùta i podé avèi la lus eletrica dì e nuéte..Z una dl so pasegiate fate dal Papa cuan ch l'era in vacanza a Lornzago, li é dù sul Peralba, ma à fato anch la strada dl malghe e é passò pr Cecdo. Saràlo dù anch z la cédùta? Calchdùn i avrà dito ch z puéco pì d mèd'ora, l podé rué su in zima, sul confin? Da ilò Li avrà podù vède Tilga e n tin d Lugàu cul santuario dla Madona gno ch i nos véce dé a pé in porzsiòn tanto dal Comelgo ch da Sapada.? Pènso propio d no e s no Li, tanto tacò a Ela n'avrà fato d manco d di a saludàla da lasù. Otra cal confin, n'ota, l tère èra comeliàne e la dente d là dové pagà pr loràle, Cuan ch i s à ribelò, i nose i à burdò i paese e à volù tanto tenpo pr tornà in pas. L 1915-18 à lasò morte sora morte anch su cl zime. L dolor, comun a nèi e a luère, à riportò n tin d pas tra la dente d ca e d là. E zla sconda guera, da amici o nemici, la dénte senplice dla montagna à savù consrvà l rispèto anch d chèi ch avé n'autra bandiera. Da Cécdo, d scònto dal finanze dl casermete d sora Dignàs, i nose déa su pr cétase cun chèi ch'era gnude dala Val dal Gai, L nos portéa tabaco e vin cl'autro pierete pr la machineta e sal: robe chèste ch mancéa ai une e vanzéa ai etre. Se, pr caso, un incontréa n finanziér, avé senpro z fonda solo n tin d radis anziana ch al mostréa com pèna coiòsta. Fin ala prosma nuéte, in poi dn crèpo, tra i mughe u i fior d saéta, è bèn sconta la robuta d scanbio. Pasa na dì, pasa n'autro, pasa luio e pasa agosto, e rua finalmènte Santa Cros cu l'ora da dsmontié Com ch ei dito al'inizio, cul cianpanìn e cul feste di Sante, se misuréa n'ota i ténpe dla nostra dénte. A sténbre maia spèso fin dai prim dis e cu maia l vace n puè di zèrto a pason e nutrise d'èrba.Cu st'esperienze, i vece a considerò com ultmo dì bon pr tignì vèrte l casère chel d Santa Cros. Così, propio in cal dì, gné distribuide l formai, l'onto, la scuetaa sconda dal late ch'ogni bestia avè fato e gné consignede anch l bestie ai so paroign. Podé alora inizié l longo viado d ritorno dl bstie e di so paroign ciariède però st'ota di dés dla roba consignéda dal mistro. I unice fortunede, zienza dèi, era chèi d Cécdo. Come ch senpro càpitéa, longo l viado, duce s parlea e un didé ch la resa era stada bona, n'autro ch l'avé ciapò formai masa fresco, etre s didéa contente pr avei cetò tanto ben l so bestie. Ma ruede a ceda, duce, ma proprio duce, zarcéa contente la roba che i avé portò dala malga. E anche chei d Cecdo s ceté sula taula chelch boconuto oferto da chi ch avéa l vacie z cli etre casere. |
MUCCHE
E GIOVENCHE IN MALGA Malga Aiarnola, Melìn, Dignas , Cecido. Bisogna riandare ai tempi in cui tutto andava misurato con l'orologio del campanile, col sole, con le festività dei santi. E questo valeva per gli uomini, per le bestie, per i campi. Il sole e la cima di un monte ti indicavano l'ora - quadrante senza le lancette! - il quale, purchè le nubi non offuscassero il cielo, non perdeva mai la carica. Il campanile lo sentivi nel più oscuro dei boschi, con la bufera di neve, con la tempesta, di giorno e di notte. Le feste dei santi non le potevi dimenticare per le campane, per le messe, per le funzioni sacre che piccoli e grandi attendevano anche perché avrebbero portato qualcosa di nuovo nel solito tran tran del paese. Se ne andava la neve e preparavi i campi, riportandone la terra nella parte alta, concimavi gli orti. Per le rogazioni incominciavi ad informarti se fosse ormai giunto il venditore carnico con le semenze delle verdure da seminare negli orti; i proprietari di mucche si davan da fare per trovare i pastori che avrebbero portato al pascolo le proprie bestie e saperle poi in mani sicure. Se la stagione non era stata propizia, appena per la metà di giugno piantavi le patate. Erano gli ultimi giorni che le mandrie uscivan al pascolo nelle vicinanze del paese e come l'albero messo sul tetto di una casa significa ch'essa è finita, così con le corna infiorate di rododendri ritornavano in paese i due esemplari più belli della mandria. La Latteria si chiudeva per san Giovanni e s'aprivan le malghe: un lungo viaggio per raggiungerle, con mucche che, a volte, si scontravano, si scornavano e, testarde rifiutavan d'avanzare. La casera più vicina, detta di SOTTO LA CRODA, è di Calalzo. Con il permesso di quel Comune, Danta poteva portare lì qualche sua bestia solo se la casera non era del tutto occupata. Si saliva dal paese su per le Paludi, Forcella Zambèi (Salvra) Cestella fino al Passo e dopo, per la strada militare vecchia, oltre i prati, fino a quel sentiero più stretto che ti portava fino all'ingresso del bosco. A pochi metri dalla casera e, appena un po' fuori del sentiero, ti ritrovavi quel laghetto in cui si specchiavano quelle crode da dove, secoli fa, s'era staccata la frana che ha riempito la valle dove adesso è stata costruito il paese di Padola. Nelle vicinanze della malga scorreva un torrentello e le mucche, dopo quella lunga camminata, correvano subito ad abbeverarsi. Quell'acqua viene adesso usata dal nostro Comune il quale, ottenuta la concessione da parte di quello di Calalzo e dello Stato, ha costruito un acquedotto che ha risolto l'eterno problema della scarsità d'acqua che ci tormentava. Una volta consegnate le bestie ai pastori, si ritornava verso casa e s'aveva tutto il tempo di contemplare i prati, le baitine e quelle più grandi costruite tutte con grossi tronchi di piante di larice, gli alberi da foglia (faggi, ontani, betulle) e gigli mughetti, arnica, silene inflate, anemoni, margherite, orchidee viola e giallicce. Intanto giungevi in quel grande pianoro e ti sembrava di vaneggiare, inchiodato ad ammirarli. E, proprio lì, su quei prati, di ritorno da una passeggiata al laghetto dell'Aiarnola, si è fermato anche il Papa, in quel pomeriggio in cui, per ore e ore, lui ha potuto godere le nostre bellezze, i nostri silenzi, le nostre cime che ricordavano forse i suoi monti, la sua terra lontana. Aveva appena lasciato quel piccolo paradiso quando s'è trovato davanti uno di Danta: Virginio di Aristide, il caporegola, che andava alla ricerca di funghi ed ha parlato un po' con lui ricevendo poi la sua benedizione. Da lì a sant'Antonio rimane ormai poca strada, ripidina, appena appena: in cinque minuti sei giunto ormai sulla strada asfaltata. Così è stato anche per il Papa - in quel 15 di luglio dell'88, secondo giorno delle sue vacanze in Cadore -. Una volta giunti lì, si sentivan già quasi a casa anche coloro che vi tornavano dopo aver portato le mucche a Sotto la Croda. MALGA MELIN: Alcuni di Danta portavano le proprrie mucche a Melìn, altri a Dignas. Perché? Quando Danta non era ancora Comune autonomo, i dantini appartenevano a San Nicolò e Santo Stefano (Casada). Una volta staccatasi da questi, la gente vantava diritti ora da questo, ora dall'altro. Per stabilire alla buona a chi rivolgersi, avevano deciso che la parte alta del paese, quella che si estendeva dal "tolpo della fontana" in su, appartenessero a San Nicolò; quella invece che s'allungava dal "tolpo in giù" a Santo Stefano. La cosa non funzionò più quando qualche marito andò "Cuco" sistemandosi cioè in casa della moglie che apparteneva a gente dell'altra parte del tolpo. Nasceva così un problema dopo l'altro. Un Pievano, che in quell'epoca poteva tutto e faceva tutto, considerati i cognomi e visto quali tra queste famiglie abitavano in maggioranza più sopra o più sotto il tolpo della fontana in centro del paese, stabilì che i Doriguzzi e Maddalin fossero considerati come originari del comune di San Nicolò mentre i Menia, Mattea, e Tosi dovevano considerarsi appartenenti invece a Santo Stefano. Ai primi spettarono prati, boschi, la casera di Melìn; a quegli altri prati, boschi, casere in Val Visdende. Con San Nicolò, si giunse, con l'andare del tempo, a salvare i soli diritti sulla casera; con Santo Stefano e San Pietro e relative Regole si è dovuto sostenere dei processi che son durati più di cento anni prima che venissero riconosciuti i nostri diritti soprattutto sui proventi dal taglio dei boschi. Chi aveva diritto di portare le proprie bestie a MELIN doveva portarle fino a Campitello attraverso il bosco, dopo fino in Tambar sulla statale. Da lì dovevi entare su quella che ti portava verso Pian delle Mole. La strada diventa sempre più ripida, ma è più larga e non crea problemi (per le bestie) Fiancheggi - e ti par quasi di toccarlo - il Longerìn; oltre, le punte del Palombino e su diritto, Cima Vallona ed il Cavallino. La radura per il pascolo è spaziosa e la casera è tutta in movimento per trovare sistemazione a uomini, bestie, attrezzi per poter riporre e conservare il latte al fine di preparare il burro, la ricotta, il formaggio. Fatta la conoscenza col Casaro, raccomandate le proprie mucche ai pastori, messo in bocca qualcosa di ciò che t'eri portato appresso come spuntino, non ti rimaneva che riprendere nuovamente la strada verso casa. DIGNAS e CECIDO. Come già detto, sono entrambe in Visdende, tanto più lontane, ma soprattutto più difficili da raggiungere perchè, dovevi scendere a s.Stefano con le bestie attraverso il Col dei Morti che è sicuramente peggio che il sentiero della Trduda tra Ceve e Campitello. Una volta laggiù, oltrepassato Campolongo, Mare, Presenaio giungevi dove il Cordevole si getta nel Piave e da lì iniziavi quella strada ripida che ti portava su a Cima Canale. Bestie e cristiani, stanchi, con la lingua fuori, giunti a Cima, prendevano fiato. Si era aperta la Val Visdende, col gran pianoro racchiuso dal Peralba e dalle cime di confine con l'Austria. Al bivio, lasciavi la strada per Costa d'Antola, oltrepassavi il ponte e, attraverso Pra della Fratta, prima sul lungo piano che ti dava ristoro e poi attraverso il bosco, facevi le ultime fatiche prima di giungere al bivio di Londo. Dignas è acora lontana, ma ti sembra di sentir meno fatica anche a spingere le mucche che invece stentano sempre di più ad andare avanti. Le ultime tappe e ti ritrovavi nella casera. Anche lì, come Sotto la Croda, come in tutte le malghe, raccomandazioni, consegne, saluti. Consumata un po' di merenda sulle panchette poste lì davanti o vicino alla croce alta di legno, un gruppo, alla volta, prende il sentiero più corto per far meno strada e guadagnar tempo per ritornare a casa. CECIDO. Unica malga che è solo di Danta. Li ci portavi solo le manze per cui la vita dei pastori che dovevano starci lassù era più dura di quella dove venivan custodite le mucche, infatti per poter disporre di un po' di latte e di formaggio dovevan recarsi a Ciampobon o, passando per Pian Marcé, fino a Monzon. La casera è stata ripristinata più d'una volta a causa delle valanghe che, d'inverno scendono da Croda Nera. Su questa, che i vecchi dicevano fosse piena di ferro a causa del suo colore scuro scuro, durante i temporali si scaricavano tanti fulmini ed i pastori avevano il loro bel da fare per costringere le bestie a rientrare presto quando incominciava a tuonare perché non venissero colpite o che scappando non cadessero nei burroni. La casetta dove vivono i pastori era poveretta, ma bastava per far da mangiare e dormire al coperto, nel caldo e con la luce prodotta dall'acetilene. Solo nel tardo dopoguerra, la Regola aveva messo in funzione una turbina che dava luce con l'acqua dei torrentelli che serviva a pulire le stalle e le giovenche. Durante una delle sue passeggiate fatte dal Papa quand'era in vacanza a Lorenzago, lui è salito sul Peralba, ma ha fatto anche la strada delle malghe ed è passato anche per Cecido. Sarà entrato anche nella casetta? Qualcuno gli avrà detto che, in poco più di mezz'ora, avrebbe potuto raggiungere la cima, il confine? Da lì, Lui avrebbe potuto vedere Tilga ed un po' di Lugau dove c'è il santuario della Madonna dove che i nostri vecchi ci andavano a piedi, in processione, tanto dal Comelico che da Sappada? Penso proprio di no altrimenti Lui, tanto attaccato alla Madonna, non avrebbe fatto a meno di andarli a salutare da lassù. Oltre quel confine, tanto tempo fa, le terre appartenevano ai Comelicesi e la gente di là doveva pagare una tassa per lavorarle. Quando poi si son ribellati, i nostri han bruciato i loro paesi ed è stato necessario che passase tanto tempo per riapacificarsi. Il 1915-'18 ha lasciato morti sopra morti anche su quelle cime. Il dolore comune, a noi ed a loro, ha riportato un po' di pace tra la gente di qua e di là. E durante la seconda guerra, da amici o nemici, la gente semplice della montagna ha conservare il rispetto anche di coloro che avevano un'altra bandiera. Da Cecido, di nascosto dalle finanze delle casermette sopra Dignas, saliva un pastore per incontrarsi con quello che proveniva dalla Val del Gail. Il nostro portava vino e tabacco, quell'altro sale e pietrine per le macchinette accendisigari, cose queste che mancavano agli uni e parevano superflue per gli altri. Se per caso uno s'incontrava con un finanziere, teneva sempre in tasca un po' di radice di genziana che diceva di aver appen raccolta. Fino alla prossima notte, all'ombra di un sasso, tra i pini mughi ed i rododendri, rimane ben nascosta la merce di scambio. Passa un giorno, passa un altro, trascorron luglio e perfino agosto, e giunge finalmente Santa Croce: con il momento di far scendere a valle il bestiame. Come ho già anticipato all'inizio, col campanile e con le ricorrenze dei Santi, si misuravano i tempi della nostra gente. A settembre spesso nevica fin dai primi giorni e quando nevica le mucche non possono certo uscire al pascolo e nutrirsi d'erba. Forti di quest'esperienza i vecchi hanno considerato come ultimo giorno utile per mantebere aperte le casere proprio quello di santa Croce. Così. Proprio in quel giorno, venivano distribuiti il formaggio, il burro, la ricotta in rapporto al latte che ogni mucca aveva prodotto e venivano poi riconsegnate ai rispettivi padroni anche le bestie. Iniziava così il lungo viaggio di ritorno tanto degli animali quanto dei proprietari carichi stavolta dei gerli con quanto consegnato loro dal Mistro. Unici fortunati e senza eli erano quelli di Cecido. Come sempre succedeva lungo il viaggio, tutti si parlavano ed uno affermava che la resa del latte era stata veramente buona, un altro si lamentava perché gli era stato consegnato del formaggio troppop fresco, altri invece si dicevano contenti per trovato tanto bene il proprio bestiame. Ma giunti a casa, tutti, ma proprio tutti assaggiavano quanto avevano portato dalla malga. Ed anche coloro che erano ritornati da Cecido si ritrovavano sulla tavola qualche bocconcino che gli era stato offerto da chi aveva avuto invece le proprie mucche in altre casere. |
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MEIO
AL ZUCAR U L NAZE? Era senpro na festa in cal dì che, su z caselo, i dadé fora l fornai e l'onto e, pi' u manco, dute l fameie s ceté in taula algo d pi' bon e savorù dal solito. Ma pr nei canaie l bel gné dopo cuan che, cuéto l'onto, l mare ne tiré fora l naze. Avon insistù e priò ch l bice inze tanta farina d sorgo a feila cuei z l'onto e dane così la sicurèza ch, dal doman bonora, l podone avei, pr tanto tenpo, a conzà l mues. Speso, pr contntane, t vdé ch l dontéa n pizgo d farina, ma parìa ch fos come a bicé via oro tanto i la zopdéa. L'udor u, pr calchdun la puza, d l'onto dsfato inpìa cusine, lode, canbre. E gné l momento da svuetàlo zla piera cun mil prcauzion pr n spandlo u n lasà gni fora anch l naze. L color d l'onto, -guai se i l'avé lasò brostlì !, - era n bel biondo, ma chel dl naze n parìa d n soroio ch va du u d na nostra zima tocéda dai so ultme rase. L vdon bel btùde ilò sul piato dal mues, z cal buduto fato l pi' dli ote cul cuciarin pr n consumé st naze masa presto e, solo dla domenia, pr ch l faza n tin d festa, i t lo avé slargiò cul scolié. Parlas dopo, tra d nei, era n contase d chié gusto ch li avéa e, pr cuanto a duc ne piasìs al zucar -ch però l'avon dante pr duto l'an - n parìa ch niente suprès l gusto dl naze. Incuéi a Danta n'è pi' vace e n'è pi' lateria. N se à pi' l muedo de incontrase ilò dante pr parlase, portà l late, dì a tol l poron pr al porzel, cetase ilò cuan ch i dadé fora la roba e sintìse ncamò paese. E nsun di fis d'incuei savarà pi' chié ch è l naze e chié ch l volé di' pr nei! |
MIGLIORE
LO ZUCCHERO O LE NAZE? Era sempre una festa il giorno in cui, su in latteria, distribuivano il formaggio ed il burro e, più o meno, tutte le famiglie si ritrovavano sulla tavola qualcosa di più buono e saporito del solito. Ma per noi bambini il bello giungeva dopo quando, cotto e sciolto il burro, le madri ne estraevano le naze. Avevamo insistito e pregato che vi inserissero tanta farina di granoturco e farla cuocere nel burro e darci così la sicurezza che, dall'indomani mattina, le avremo potuto avere, per tanto tempo, quale condimento nella farinata. Spesso, per accontentarci, le vedevi aggiungere un pizzico di farina, ma pareva fosse come buttar via dell'oro tanto la soppesavano. L'odore, o per qualcuno la puzza, del burro sciolto riempiva cucine, vano d'ingresso della casa, camere. E giungeva il momento di versarlo nella "pietra" con mille precauzioni per non spanderlo o lasciarvi cadere anche le naze. Il color del burro - guai se l'avessero lasciato abbrustolire! - era un bel biondo, ma quello delle naze ci sembrava color del sole al tramonto, d'una nostra vetta toccata dai suoi ultimi raggi. Le vedevamo già messe lì, sul piatto della farinata, in quel buchetto fatto il più delle volte col cucchiaino per non consumare queste naze troppo presto e, solo di domenica, per fare un po' di festa, te l'avevano allargato col cucchiaio. Parlarsi dopo, tra di noi, era un raccontarsi di quale gusto avessero e, per quanto a tutti ci piacesse lo zucchero - che però avevamo a portata di mano tutto l'anno - ci pareva che niente potesse superare il gusto delle naze. Oggi a Danta non ci sono più mucche e non c'è più la latteria. Non abbiam più modo d'incontrarci lì davanti per parlarsi, portare il latte, andare a prendere la scotta per il maiale, trovarsi lì quando ne distribuivano i prodotti e sentirsi ancora paese. E nessuno dei figli d'oggi saprà più che cosa siano le naze e che cosa volevan dire per noi! |
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Naze = Farina di granoturco cotta durante lo scioglimento di burro stagionato. | |||||||||||||||||||||||||||||||||||
SONA'
PR NADA' - L MISSUS - L ZUFAL L cianpane é senpro stade "la lenga" dla Gedia, fata sì d pres, d vangele, d tridue e novene,ma pi'd duto d dente ch s servìa d'ele pr ese informade su li ore, l funzion, l feste e l sagre di sante protetors.Ele à senpro sonò duto l'an, ma l periodo ch l dové parlà da pi' ai nose e a duc i paese d'intorne era chel d Nadà. I canpanare scomnzea l so turno d laoro pi' longo e pi' duro cu la prima domenia d'avento e s riptea pr clietre trei domenie. Al doe, soné la dotrina pr i canaie; al trei, l vespro ch fnia senpro cu la bndziòn dal Santisimo e duto avé termin verso l cuatro. Com ch la dente de fora d gedia, tachè l "conzerto": sonà dl trei cianpane pi' grande e i canpanare s sfoghea pr pi'' de n cuarto d'ora. Cul dì d santa Luzia partia, ali oto dadsera, n conzerto ch durè med'ora e, dopo n'esibizion cui canpanote, s riptea al nueve.. Ai vintiun, san Tomas, l cianpane sonè in longo ali oto, al nueve e al diese inframdade dai canpanote .Pr fei chese, bisognè ch i canpanare s cetes su dal cianpane e, pizi e greign s divertia a sta z strada pr scoltai e pr vardà l cianpanin ch, propio ilò avé cal tin d luduta d candele ch trmolea pr al vento ch sofie inze dai vuete dl balconade. Rue Nadà, fin d'an, Pifania e fnia l straordinario d sti omi. Com premio, l zùfal, ma prima d parlà d chesto , m pias rcordà l Missus. Era chesta na funzion seral ch dadé origine ala novena d Nadà. Era praticamente l vangelo dla nascita d Gesù, diviso in tant parte, ciantò da n solista ch'era d solito l mon-go. Ogni parte fnia cun "Tu autem Domine miserere nostri" riptù coralmente dala dente. La mlodia era bela, fazile e consntia svolaze ch Marino sognè e eseguia com cui "diecommila signati" dl'epistola dla mesa di Sante o durante l tornà dal sumiterio, l dì di Morte, cul marziale Dies irae. Ei senpro sprò da cetà calchdun ch m diga s'esiste sta musica trascrita in dalgò. Ma d ste "melodie ala vecia",rimasùi forse di tenpe ch'aròn cun Aquileia, n sei sto bon d rintracié niente. Laso l Missus e sta nosrea gedia strapiena d dente e torno ai canpanare. Era in sié, sete: i Ciands,Tabachi e tra i pì vece Dante Alfaré, iuted però anch dai doign ch volé inparà a frmà e blocà la cianpana col batocio su in alto; era l segno dla masma bravura. Durante l sère ch i sonè pr Nadà, doi d luere pasé pl cede cula tracòla e la dente i dadé,pr premio, farine, ueve, formai, faduei u autra roba da mangé Così, pasad l feste, i podé feise na bona zena e pasa tanta roba per fei da mangé al so fameie. Daliote, z na fameia era sucesa chelch disgrazia e i avé bisogno d cla spezie d'aiuto; na parte d chel ch i avé ciapò dea a fni ilò, Ma dal momento ch l so gran sonade era senpro colgade al feste e al robe bele cuan ch t parlea di canpanare t sintia dinze d te na contnteza ch ai pizi fadea ludì i ueie., ai grande rendea manco pesante l pnsà al doman, al laoro, ala salute. |
SUONARE
PER NATALE - IL MISSUS - IL " ZUFAL" Le campane sono sempre state "La lingua" della Chiesa, fatta sì di preti, di vangeli, di tridui e novene, ma soprattutto di gente che s'è servita di loro per essere informata sulle ore, le funzioni, le feste e le sagre dei santi protettori. Esse hanno sempre suonato tutto l'anno, ma il periodo in cui dovevano parlare di più ai nostri ed a tutti i paesi d'intorno era quello di natale. I campanari incominciano il loro turno di lavoro più lungo e più duro con la prima domenica di avvento e si ripeteva per le altre tre domeniche. Alle due, suonava la dottrina per i bambini; alle tre il vespero che terminava sempre con la benedizione del Santissimo e tutto terminava alle quattro circa. Come la gente usciva di chiesa, partiva il Concerto, il suonar delle tre campane più grandi ed i campanari si sfogavano per più d'un quarto d'ora. Col dì di santa Lucia partiva, alle otto di sera, un concerto che durava mezz'ora e dopo una esibizione coi "campanote" si ripeteva alle nove. Il ventuno, san Tomaso, la campane suonano a lungo alle otto, alle nove ed alle dieci inframmezzate dai campanote. Per poter fare questi, bisognava che i campanari si trovassero su dalle campane e, piccoli e grandi si divertivano a stare in strada per ascoltarli e per guardare il campanile che, proprio lassù aveva quel po' di lucetta di candela che tremolava per il vento che soffiava attraverso i vuoti delle balconate. Arrivava Natale, fine dell'anno, l'Epifania e terminava lo straordinario di questi uomini. Come premio, il "zufal", ma prima di parlare di questo, mi piace ricordare il Missus. Era questa una funzione serale che dava inizio alla Novena del Natale. Era praticamente il Vangelo della nascita di Gesù diviso in tante parti, cantato da un solista che era di solito il sagrestano. Ogni parte terminava con il "Tu autem Domine miserere nostri" ripetuto coralmente dalla gente. La melodia era bella, facile e consentiva svolazzi che Marino sognava ed eseguiva come con i "diecimila segnati" dell'epistola della messa dei santi o durante il ritornare dal cimitero, nel giorno dei Morti, con il marziale Dies irae. Ho sempre sperato di trovare qualcuno che mi dica se esiste questa musica trascritta in qualche parte. Ma di queste "melodie alla vecchia", rimasugli forse dei tempi in cui eravamo con Aquileia, non sono stato capace di rintracciare nulla. Lascio il Missus e questa nostra chiesa strapiena di gente e ritorno ai campanari. Erano in sei, sette: I Ciands, Tabacchi e, tra i più vecchi Dante Alfarè, aiutati però anche dai giovani che volevano imparare a fermare e bloccare la campana col battacchio su in alto; era il segno della massima bravura. Durante le sere in cui suonavano per Natale, due di loro passavano per le case colla tracolla e la gente dava loro, per premio, farine, uova, formaggi, fagioli o altri generi da mangiare. Così, trascorse le feste, potevano allestirsi una buona cena e passàr tanti generi per far da mangiare alle loro famiglie. Alle volte, in una famiglia era successa una disgrazia ed avevano bisogno di quella specie d'aiuto; una parte di quanto ricevuto andava a finire lì. Ma dal momento che le loro grandi suonate erano sempre collegate alle feste ed alle cose belle quando ti parlavano di campanari sentivi dentro dire che ai giovani faceva luccicare gli occhi, ai grandi rendeva meno pesante il pensare al domani, al lavoro, alla salute. |
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STUDIE
PR SAVEI LA RESA D N BOSC L nostre Régole à senpro avù na gran cura dal bosco, di pras, dli aghe e, d vécio in vécio, s'à tramandò i muéde pr salvài e consrvà st richèze pr chèi ch vive zi nos paese, ma soralduto pr chèi che à da gnì. Pras e aghe dadé da vive al béstie e al famèie; i bosche èra l capital pr fèi fronte a dute l spese pr cede, strade, malatie, dsgrazie e pr fei algo pr tignì tra d nèi la dente zienza ch s spòpole l paese. Era senpro tance i bisogne e pr sodisfèili duce bisogné taié masa piante rstando così cun puece entrate pr ane e ane. S savea pi' u manco chel ch rendea n bosco a scònda cal fos su tarèn bon u su crode e palù; su ch la base s fadéa i tàie. Ma s podéa anch avèi n periodo de amnistrators d mània largia e cetase dopo cui bilance da fame. Na decision dura, ma bèn tolòsta é stada chèla da stablì, cul "Piano Economico",cuance metr cube d legname s podéa taié zal tenpo d diese-cuinds ane. La pratga di vece unìda al savèi di studiose à do a Danta la fotografia dla situazion di so bosche,dl'età e dla resa d chèse. E' sto n laoro longo, partù zi prime ane zincuanta cu l'aiuto d l'Università d Bologna, sot la guida dal dotor Bagnaresi, l primo Diretor dal Consorzio Forestal d Sa Stefi e ch interséa duto l Comelgo. S'à scomnzò cul fei na spezie d gran censimènto dl piante. L bosco é sto diviso in tante "particelle"numréde, cu cifra signéda sula pianta, in negro su sfondo bianco. Particéla pr particéla, gné misuràde duce i pozués e i vdì che, al'autèza de n metro e médo, avéa n diametro d pi' d cuinds schèi. Girolamo, guardia d Comun e l Forstàl, stablìa zirca chié auteza chi avéa, misuréa cul calibro l so spsor, cul fero signé la scorza e ciaméa chi doi date e l forstàl e ie ch "tignùn tesra" li notòne man man. Pasad così duc i bosche d Comun (incuéi d Régola)s'à podù savèi prfin cuant piante ch s'avéa e, pi' u manco, anch cuanc ane ch li avéa e pr cuanto che l podéa ncamò ozàse. Pr cognòse cuanto ch li à podù crèsce d volume an pr an,é stade sacrifichéde nschiè d bél piante pr ogni particela. N'ota taiade e sdramàde, gnéa da nuévo siéde a n metro dal zuco e dopo a misura dl taiem.4,15). S podéa così contà i ane dla pianta vardando i anì sul zuco ch mostréa anch cuanto ch la s slargea ogn an, s ncamò la s'ingroséa, s l'era"adugiata" u s'inveze l'avé tanto stntò a cresce da n podèi contà. ch presapuéco, i so ane cu na lente. A uéio, è sto lolo fazile vède ch sul piére tra Salvra e sant'Antòne o sui tofe dal Col d Piédo voléa bèn pi' d zento ane pr avèi na pianta media; verso Cianpdél e z la Viza Nuéva inveze era bél cuas da taiala sui otanta novanta ane. Btùd insieme duc chi date, calcolò cuance métr cube d tàie ch podé dà ogni particela z dies ane e cuanc inveze l'intiero bosco, é sto stablù cual ch dové ese la cubatura masima d piante ch s podéa taié ogni an e solo su chèla dové basase l bilancio.N tàio straordinario,fora dal previsto, conportéa na riduziòn da ripartise, in parte conpagne, zi ane sucesive. Così capitea però anch cuan ch, pr na nvèra fòra d stasòn u pr tronbe d'aria, l piante pizle e grande gné roversàde. Gné scalade alora, pr i ane d durata dal Piano, sèia i metr cube tàiéde, sèia chei ch era previste come crescita z cal periodo. In sto muédo n pué pi' capité chèl ch s vède inveze a la fin dl legislature cuan ch vién vèrte i cordoign dla borsa sprando da ciapà chèlch voto in pi'. Se incuei son tranquile sot sto punto d vista e podòn contà su date sicure pr al bilancio dla nostra Regola, bisogna rcordàse d l'inpegno e dl'initzativa ch à visto in primo pian l dotor Umberto Bagnaresi che, pr i so mèrite, é gnu dopo n stimò e famoso profsòr d Selvicoltura e Culture arboree z la Università d Bologna. La fabrica d Tino Dordanin à fornù l'estero e duta la Forstal d'atreze speciai invntade da Li e da dorà,fin dala Martlada pr signé l piante, misurale cun precision in auteza e in diametro. |
STUDI
PER CONOSCERE LA RESA DI UN BOSCO Le nostre Regole hanno sempre avuto una grande cura del bosco, dei prati e delle acque e, da un vecchio all'altro, sono state tramandate le modalità per salvare e conservare queste ricchezze per coloro che vivono nei nostri paesi, ma soprattutto per quelli che devono ancora nascere. Prati ed acque davano da vivere al bestiame ed alle famiglie; i boschi erano il capitale per poter far fronte a tutte le spese per le strade, le case, le malattie, le disgrazie, le iniziative per trattenere tra di noi la gente, senza che si spopoli il paese. I bisogni erano sempre tanti e, per soddisfarli tutti, sarebbe stato necessario tagliare troppe piante rimanendo così con scarse entrate per anni ed anni. Più o meno si conosceva a quanto ammontasse la resa di un bosco a seconda che questo si trovasse su terreno buono o pieno di sassi o in una zona paludosa e su questa base si autorizzavano i tagli. Ma si poteva anche avere un periodo con amministratori di manica larga e ritrovarsi poi con bilanci da fame. Una decisione dura, ma ben presa, è stata quella di stabilire col "Piano Economico", quanti metri cubi di legname si sarebbero potuti tagliare ed utilizzare entro un periodo di dieci - quindici anni. La pratica degli anziani unita alla conoscenza scientifica degli studiosi ha fornito a Danta la fotografia della situazione dei suoi boschi, della loro età e del loro rendimento economico. E' stato un lungo lavoro, partito nei primi anni cinquanta con la collaborazione dell'Università di Bologna, sotto la guida del dottor Bagnaresi che è stato il primo Direttore del Consorzio Forestale di Santo Stefano e che aveva competenza su tutto il territorio del Comelico. Si incominciò con una specie di grande censimento delle piante. Il bosco è stato diviso in tante "particelle" numerate, con la cifra - ben segnata sulla pianta - in nero su campo bianco. Particella per particella, venivano misurati tutti gli abeti rossi ed i bianchi che, ad un metro e mezzo d'altezza, superavano il diametro di quindici centimetri. Gerolamo, che era la guardia boschiva del Comune e le Guardie Forestali, ne stabilivano presso a poco l'altezza che dimostravano, ne misuravano col calibro il loro spessore, col "ferro da signé" tracciavano sulla corteccia due segni a dimostrazione che la pianta era stata "censita", poi scandivano a voce alta i dati di ciascun albero ed io ed un forestale che "tenevamo tessera" li annotavamo man mano. Esaminati così tutti i boschi del Comune (oggi di proprietà della Regola) si è potuto sapere perfino quante piante esistessero e, più o meno, quanti anni avessero e per quanti ancora avrebbero potuto vegetare e crescere in altezza. Per conoscere quanto avevano aumentato di volume, anno per anno, sono state sacrificate alcune belle piante per ciascuna particella. Una volta abbattute e private di rami e corteccia, venivan segate ad un metro dalla ceppaia e dopo alle normali misure delle "taie" (metri 4,15). Era così possibile contare gli anni della pianta osservando gli anelli sulla ceppaia che mostravano anche quanto essa s'ingrossasse ogni anno, se lo facesse ancora, se dimostrava d'essere aduggiata o se invece avesse così stentato a crescere da non poter contare che, approssimativamente, i suoi anni con una lente. Ad occhio, è stato subito facile constatare che sul pietrame tra Sàlvera ( Forcella Zambei) e Sant'Antonio (il passo) o sui tufi del Col di Piedo ci volevan ben più di cent'anni per far crescere una pianta di medie dimension; verso Campitello e nella Vizza Nuova invece era quasi pronta per il taglio già sugli ottanta, novant'anni. Messi assieme tutti quei dati, calcolato quanti metri cubi di tronchi avrebbe potuto produrre ogni particella nel periodo di dieci anni (durata del Piano Economico) e quanti invece, in tal periodo, ne avrebbe dato l'intero bosco, venne stabilita quale fosse la cubatura massima di legname che si sarebbe potuto tagliare anno per anno e che solo su di essa avrebbe dovuto basarsi la stesura del bilancio. Un taglio straordinario, all'infuori di quanto previsto, avrebbe comportato una riduzione - ugualmente ripartita - negli anni successivi. La stessa cosa era prevista anche quando, per una grande nevicata fuori stagione o per una tromba d'aria, le piante sia piccole che grandi, venivano rovesciate. Si doveva allora detrarre dalla successiva quantità utilizzabile entro gli anni di validità del Piano, tanto i metri cubi tagliati a causa dell'evento, quanto quelli che erano previsti come crescita in tale periodo. In questo modo non può più succedere quanto invece accade alla fine delle legislature quando vengono aperti i cordoni della borsa nella speranza di acquistare qualche voto in più. Se oggi siamo tranquilli sotto questo punto di vista e possiamo contare su dati sicuri per la stesura del bilancio della nostra Regola, dobbiamo ricordarci dell'impegno e della iniziativa che hanno visto, in primo piano, il dottor Umberto Bagnaresi che, certo per meriti, è divenuto poi uno stimato e famoso professore di Selvicoltura e Culture arboree alla Università di Bologna. La fabbrica di Valentino Doriguzzi Zordanin ha fornito l'estero e tutta la Forestale di attrezzi speciali da lui ideati e da usarsi, fin dalla Martellata, per segnare le piante, misurarle con precisione in altezza ed in diametro. |
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QUAN
CH DONE A MOLìN. "Dì a molìn" era na fadìa ch, ogni tanto, fadéa parte dl robe ch tocéa al fèmne: seia done ch sposade e, chèlch òta, pr fin, cun canaiùte davòise. Bisogna savèi ch n'òta n s cétéa da conprà zll botèghe bél pronta, farina pr fèi la polenta, l mués e la pèta; i vndéa solo l sorgo ch bisogné portà dopo dal mulinèi pr madnàlo e avèi così la farina e la sènbola ch s doréa pr al paston dl pite. Danta a sempro avù problème pr l'aga.Imaginase s s podéa pnsà d'avèi n molin (anch pla puécia dente ch avéa l paese)da fèi dì cu l'aga dal Giò Gran ch, spèso, é pì na staladègna ch n gioazòn ch pòsa fèi muove l pale.Dal resto, la storia dla siéga fata ladù e mai doràda, a insignò ch s n t as na continua gran portàda d aga, n t pués insognate d fèi funzioné chèlch machinario.Tornòn ai mulinèis e ai so mulins.Un era a Géra e s déa ilò quan ch s avéa comprò l sorgo a Ciandìde, dai d'Ambròs; cl'auitro era inveze a Ciàmpdél, e ilò s portéa chèl ch,in paese, n avéa vndù i Boze.Basta puéco pr capì chié ch voléa dì portase n dèi d sorgo fin ladù, a fondo val, spité chi lo madène, riciariàslo e dopo tornà a Danta cun chèl pién d farina. Ma duta sta fadìa n'inpresionéa nsuign! I truéis, cul continuo dì su e du dla dénte, era bèn tignude e, a mtà strada, s s frméa senpro a beve chla bona aga zal giò d Ciampanéle u a la salèta d la Pèra. S,durante al viado, l fèmne s la contéa e soté fora dute li ultme ch tocéa i fate dal paese, s pué pnsà com ch gnéa fiorìde i so discorse propio ilò dal poié. Era chèste fate in muédo da podèi poié còmdo l dèi, ozàse su in pes, muévse inante e in davoi, ldiére com i ozì ch dòla, bèn suiéde, dopo n pioazòn. Chèlch ota,inveze, anch èle,st done,ste fèmne, frmàde bèn i dés e suiéde l sudòrs cul ciantòn dal garmàl, s poiéa du sui mus-ce, i lìchin, la démola c fadéa risaltà ncamò da pì l nègro dl poie. Strache da morì, cul so man poiéde sul gianbe quas pr tiras via la strachèza, stadéa fèrme com l statue, ma drète su, com i vèsche e i cardinài in san Piero.Chi uéie, cl rughe,cl zèie umde d sudor e forse d lagrme podéa d sguro tocié l cuere d chèlch artista e ispiràlo pr fèi un d chi quadre ch incanta. Ma ilò paséa solo,sul pì tarde, li olpe e liore ch s frméa forse a ciapà i ozì c curé su l froglute d pan sbriséde da cl man indurìde dal laoro Cu n li avéa, pì ch tanto,premura, la pòia duréa anche n quarto d'ora e calchduna s godéa a ciiacolà d robe ch forse era mèio lasà sconte pr n tocié zèrte"bronze cuèrte"che, dopo, gnéa in savèi e naséa prfin barufe tra famèie. Ripartìde, l peso dal dèi s fadéa sénpro pì duro e n tin a l'ota, l poie s dnntéa una su l'autra: bastéa n bocòn d zuco, na radìs, na cròda pr librase l spale da cl' intrigo, rspiré pr calch minuto e sintìse in forza pr rué senpro pì davdin céda. Ilò bisognè contà com c s avéa cèto l mulinèi e chié ch l'avéa dito; s voléa savèi s al s'avéa tignù pì farina dal sòlto; s, davdin Gera,s'avéa incontrò"l mato" Era chèsto l teror di canaie, ma anch dl fèmne ch n voléa mai spitàse d vèdslo gnì fora dal bruse u tra l piante. Li èra proprio brutin e caminéa anch mal, ma dal mal n l'avéa mai fato a nsuign. Solo che duce, zi paése dintorne, didéa da sta atente a li e, scolta un, scolta cl'autro, donta un, donta cl'autro, n tin a l'ot a vèdslo dante èra com avèi cétò l diàu u un ch t mazéa solo cul fisate. Fnù da contà d chèsto e d chèl, btùda a posto e bèn saràda la farina pr ch n la ciape i verme, sistmada anch la sènbola, era pronta na goza d café d'orzo pl tode e l fèmne e n tin d pan u -quan ch la déa bèn - do frogle d pèta ai canàaie ch avéa fato l viado. Ch t sèia stada la parona d ceda u una ch t èra duda a molin pr fèi n piazèr,t'avéa ncamò na roba da fèi: tol su i sèce d ran u l sèie tacade sot la scafa e dì ala fontana a tòl aga pr la sèra e pr la nuéte. Era anch chèsta na fadiùta, ma ldiéra. E pi d n'ota l fèmne s spité da vède ch al cornòn bicès puéco pr sta ilò, n tin da pì, pr parlase tra chèle dla contrada; i canaie inveze n vdéa ch cl'ora pr doié ncamò n tin tra d luére. Propio la fontana - ma anche l lavatoio e l casélo - era i poste pr cetàse, parlàse e scoltàse. Ilò, durant al dì, era senpro movimènto, ma quan ch sonéa l'Ora d nuéte, bisogné avèi duto a céda e sti poste rstéa soi, soi, soi. Dali ote, via pla nuéte,t sintìa os u rumors. S chèsto capitéa, voléa dì ch calcdùn stadéa mal u ch algo n déa bèn z na stala. Alora s'inpizéa l lus zl canbre pr vède d chié ch s tratéa e d chié chi s podé fèi pr iuté chi ch avéa bisogno. Dopo puéco, duto tornéa calmo e intanto, zite zite, ziélo e stèle cuardéa i pnsiérs e l paure dal paese e solo z chèlch sogno tornéa a fèise vive i truéis, l poie e l mulinèi. Ma anch i pizi sognéa e vdéa l'aga, tanta aga, chèla dal giò e chèla che i avé dute sguatrizéde pr èse stade ilò gno ch la schizèa duto intorne dopo ch l'era tomàda du sora cl gran pale d lèn ch fadé giré la roda. Era bél stò n sogno.Ma, n bél gran sogno era sto, apèna ruéde du, vède duta cl'aga vède l Pàdola ! Eh, sì ! Via dal cornòn dla fontàna, chi di pizi avé mai podù vede, biandase, doié cu l'aga,su da nèi ? Era bél bél, cqan c gné i sguèrgne, prfìh si fadé paura, vèd l'arié così impù d pioa ch dé otra così forte da mangé fora l tarèn dla strada, imagihase cetàse dante a cal Pàdola, cal giò cu na forza così granda ! S vardéa duto, s sintìa l fracaso dla mola, n bstiòn gno podé sntas su vinte canaie e c giréa e fadé bicé fora pizghe d farina ch tomé du cu la calma d na staladègna, z n borsituto. Ogni tanto, s lo svuétéa z n saco gran ch gné cambiò al momènto da bicié inze z na piria enirme , btùda sora la roda, n nuévo saco d sorgo d n'autra paròna.. Ma l pì bél è ilò d fora e cqas t priéa ch al molìn laòre pì pian pr sta ilò hcamò tanto.Ma l bél fnìs Zal tornà su, l colòr dli erbe, di fiore, dl piane, prfin dl radìs c t fadé ingiamnarà sul truéi, savé d celéste, l vénto forte tra l bruse e i pozlonì t riciaméa l runòr dla mola; l dolà di ozì n'era ch al sbrisé du pian d l'aga tra l sponde dla roggia. Duto chèsto era pr i pizi "dì a molìn". T lo sognéa l dì inante pèna ch to mare t'avé proméso d portàte; t lo vivéa ladù, Ciampdél u Gera c sèia sto; t lo portéa zal cuere fin ch n t inzopdìa zal ciaudùto dl cuèrte; t lo rivdéa msdò a angiòi, nughi, pan d'oro dal Paradis, ozlùte cui colors dl arcobaleno, canaiùte portàde su ale d pavèis fin su tra cl stèle che, cui so mil uéie, n varda e brazea grèign e pizi pr duta la nuéte com na bona gran mare. |
QUANDO
SI ANDAVA "A MOLIN" "Dì a molìn" (schendere al mulino) era una fatica che, ogni tanto, faceva parte delle cose che spettavano alle donne: sia giovani, sia sposate e, qualche volta, perfino con bambini al seguito. Bisogna sapere che una volta non si trovava da comperare nelle boteghe, già pronta, la farina per la polenta, la farinata, la "pèta"; vendevano solo il granoturco che bisognava poi portare dal mugnaio per macinarlo ed ottenere così la farina e la crusca che si adoperava per il pastone delle galline. Danta ha sempre avuto problemi per l'acqua. Immaginarsi se si potesse pensare d'avere un mulino (anche per i pochi abitanti del paese) da far funzionare con l'acqua del Giò Gran che è spesso più uno sgocciolìo del tetto che un torrente che possa azionare le pale. Del resto, la storia della segheria edificata laggiù e mai funzionante, ha insegnato che se non disponi d'una buona gran portata di acqua, non puoi sognarti di far funzionare qualche macchinario. Torniamo ai mugnai ed ai loro mulini. Uno si trovava a Gera e lì ci si andava quando s'era comprato il grano a Candide, dai d'Ambros; l'altro era invece a Campitello e lì si portava quello venduto in paese, dai Bozzo. Basta poco per capir cosa significsse portarsi una gerla di granoturco fin laggiù, a fondo valle, aspettare che lo si machinasse, ricaricarselo, risalire poi a Danta con quella piena di farina. Ma nessuno si impressionava per tale fatica! I sentieri, con l'andirivieni della gente, eran ben tenuti e, a metà percorso, ci si fermava sempre a bere la buona acqua nel ruschello di Ciampanele o a la "salètta dla Pèra". Se, durante il viaggio, le donne se la raccontavano scoprendo tute le novità sugli ultimi fatti del paese, si può intuire come venivano fioriti i loro discorsi proprio lì, alle Pòie. Queste eran fatte in modo da poter posare comodamente sul terreno le gerla, alzarsi in piedi e muoversi leggere come gli ucchelli che volano, ben aschiugatisi, dopo un grosso piovasco. Talvolta, invece, anche loro, 'stegiovani 'ste donne, posate le gerla e aschiugatisi il sudore con un angolo del grembiule, si sedevan sui muschi, i licheni, gli aghi d'abete, che facevan risaltare ancor più il nero delle Poie. Stanche morte, le mani posate sulle gambe quasi a togliersi la stanchezza, stavan ferme come statue, ma ritte come i vescovi ed i cardinali in san Pietro. Quegli occhi, quelle rughe, quelle ciglia umide di sudore e forse di lacrime avrebber potuto sicuramente toccar il cuore di qualche artista ed ispirarlo per dipingere uno di quei quadri che incantano. Ma di lì pasavano solo, sul più tardi, volpi e lepri che si fermavan forse solo per prendere gli uccelli che scendevano a raccogliere le briciole di pane scivolate da quelle mani indurite dal lavoro. Quando non avevano troppa premura, la sosta durava anche un quarto d'ora e qualcuna si godeva a chiaccherar di cose che forse sarebbe stato meglio lasciarle nascoste per non toccare certe "braci coperte" che, informate, davan a volte origine a baruffe tra le famiglie. Ripartite, il peso della gerla si faceva sempre più duro e le poie un po' alla volta, s'aggiungevan, una sull'altra: bastava una ceppaia, un pezzo di radice o un sasso per liberarsi le spalle da quell'intrigo, respirare per qualche minuto e sentirsi in forma per giunger sempre più vichini a casa. Lì bisognava raccontar in quale stato si fosse trovato il mugnaio e cosa ci avese detto; si voleva sapere se si fosse trattenuta più farina del solito: se, nei pressi di Gera, ci si fosse incontrati con "il Matto". Era costui il terrore di bambini e pur delle donne che non avrebbero mai voluto vederselo uscir di tra i cespugli o le piante. Lui era proprio brutto e caminava anche male, ma del male non l'aveva mai fatto a nessuno. Solo che tutti, nei paesi vicini, dicevan di riguardarsi da lui e, ascolta uno, ascolta l'altro, aggiunge uno aggiunge l'altro, un po' alla volta vederselo davanti era come incontrar il diavolo o uno che t'uccideva col solo sguardo. Finito il racconto di questo e di quello, messa ben a posto la farina e rinchiusa perché non venga attaccata dai vermi, sistemata anche la semola, era pronta una goccia di caffe d'orzo per le giovani e le donne ed un po' di pane - o se andava bene - due pezzi di "pèta" per i bambini che avevano fato il viaggio. Che poi tu sia stata la padrona di casa o una che era scesa al mulino per fare un piacere, avevi ancora una cosa da fare: prenderti i secchi di rame o le secchie agganchiate sotto la "scafa" ed andare alla fontana a prendere l'acqua per la sera e per la notte. Era pur questa una fatica, ma leggera. E, più d'una volta, le donne si attendevano di vedere che il getto della fontana erogasse poca acqua per poter star lì un po' di più e parlarsi tra quelle della contrada; i bambini invece non vedevan che quell'ora per giocare ancora un po' tra di loro. Proprio la fontana - ma anche il lavatoio e i locali della lateria socale - erano i luoghi per incontrarsi, parlarsi ed ascoltarsi. Lì, nel corso della giornata, c'era sempre movimento, ma quando suonava l'Ave Maria della sera, bisognava avere tuto in casa e questi posti rimanevano soli, soli, soli. Alle volte, durante la notte, sentivi voci o rumori: voleva dire che qualcuno stava male o che c'eran problemi in una stalla. Allora s'accendevan le luci nelle camere e, un po' alla volta, la gente scendeva in strada per vedere di che cosa si trattasse e di cosa si potese fare per aiutare quanti avevano bisogno. Poi tutto tornava calmo ed intanto, zitti zitti, cielo e stelle coprivano i pensieri e le paure del paese e solo in qualche sogno tornavano a farsi vivi sentieri, poie, mugnai. Ma anche i piccoli sognavan e vedevan acqua, tant'acqua, quella del ruscello e quella che li aveva resi fradici per essersi messi lì dov'essa schizzava tutt'attorno dopo esser caduta sulla gran pala di legno che faceva girare la ruota. Era già stato un sogno, un bel gran sogno, appena arrivati giù, vedere tutta quell'acqua vedere il Pàdola! Eh, sì! All'infuori dello zampillo della fontana, chi dei piccoli aveva mai potuto vedere, bagnarsi, giocare coll'acqua, su, in paese nostro? Era già bello, quando arrivavan gli acquazzoni, perfino se facevano paura, vedere la cunetta così colma di pioggia che fuoruschiva tanto impetuosa da erodere il terreno della strada, immaginarsi il trovarsi davanti a quel Pàdola, quel torrente con una forza così grande! S'ammirava tutto, s'udiva il fracasso della mola, un bestione sul quale potevano sedere venti ragazzi e che girava e faceva fuoriuscire pizzichi di farina che cadeva giù, con la lentezza di uno stillicidio, in un sacchetto. Ogni tanto, lo si svuotava in un sacco grande che veniva cambiato quando giungeva il momento di versare in un enorme imbuto, messo sopra la macchina, un nuovo sacco di granoturco d'un'altra padrona. Ma, per te, il più bello è lì fuori e quasi quasi tu preghi che il mulino lavori più piano per poterti trattenere lì ancora più a lungo. Ma il bello finisce Nel risalire verso casa, i colori delle erbe, dei fiori, delle piante, perfino delle radici che ti facevano inchiampare lungo il sentiero, sapevano di celeste, il vento forte tra cespugli e piantine d'abete ti richamava il rumore della macchina; il volare degli uccelli non era che il lento scivolare giù dell'acqua tra le sponde della roggia. Tutto questo significava per i piccoli il "dì a molin"- scendere al mulino. Incominciavi a sognartelo il giorno prima appena tua madre t'aveva promesso di portartici; lo vivevi laggiù, si trattasse di Campitello o di Gera; te lo portavi nel cuore fino a quando non t'appisolavi nel calduccio delle coperte; lo rivedevi frammisto ad angeli, nuvole, il pane d'oro del Paradiso, uccellini con i colori dell'arcobaleno, bambinucci portati su ali di farfalle fino a su, tra quelle stelle che, attraverso i loro mille occhi, ci guardan ed abbracciano grandi e piccoli per tutta la notte come una buona grande madre. |
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IN
ZERCA D'ERBA DA SIE' Ché bi ténpe cuan ch a Danta era tant vace che i scugnéa fèi do mandrie per portàle a pasòn , bèn custodìde, d'insùda e d'otòno ! Bì tempe, s'inténde, pr al late, l formài, la scuéta e l'onto ch t cétéa, senpro frèse, dal bacàn u su z casélo. Ma tignì una u do vace voléa anch di' avèi fién pr duto l'inverno e, s t'avéa puéc pras da sié, bisogné dì, durant l'istade, a zrcàla gno ch nsuign n s la sintìa da dì parchié ch l'era masa scomoda u tanto basa ch al duégo n valéa la candèla. D solto, cuan ch s siéa l fién da pèilo, duce zrchéa d ntà anch intorne al pra, sote l piante, a fianco e intorne i truéis: duto era bon pr podèi inpì l barco u, almanco, pr ozà su n tin d livél l fién btù via. Così fadòne anch nèi trèi fradis cuan ch s déa a sié a Stalarué e dovòne sostituì l pare ch loréa lontàn. Fnù da sié l bocòn d pra al d ca di pilòign dla stazion d scancio dla teleferica dal 17, done otra l nos col e i pras d Caio e chèi d Liòrio d Bepo Ghelo, fin du zl "Palète" d Tilio d Roc ch ne avéa do l prméso. Ilò èra tanta erba lèsa e ruòne a siàla fin sui costoign dal Dieba. A dì l vèiro, ié n ero n granché: fadéo n andèn fin ch mi fra Mario fadéa trei, ma algo iutéo; l pì' pizal, ingrumé l'erba. L pédo gné dopo. Ladù, infate, era senpro onbrìa e n s podéa manco pnsà da spité ch la s suié pr portala z barco. Savéndo chèsto, portòne senpro apéd nèi n céso gno ch, d solto, s'ingruméa l fien e lo inpùne cun cuatro, zinché biéstre d'erba e, btù sora l ciò, lo portòne su in zima gno ch'era soroio; ilò fadòne la "rodéla" com cuan ch s siéa l pra. Tocéa a mi e a Bepino fèi sto laòro e portà su i cése, ma pi' d n'ota, pr la piòa u pr la rodàda, sbrisòne e l céso alora rodléa du, ziénza piétà, spandéndo l'erba d longo dù. Era n suplizio soraldùto cuan ch aròne pi' strache u avon fame, e btòne sénpro pi' tenpo a di su e du cun sti cése, ogni ota, pi' uéte. Gné l'ora d mdodì e tornòne verso l barco pr rodlà l fién zl rodéle, s era bél tenpo, u pr fèi n cogluzuto ch n al tornès a biandase duto s al piovéa. Cuan ch pensòne ch sèia suta l'erba ch avòn portò su in zima al Palète, tornòne ilò e, senpro cui cése, la portòne - ldiéra ldiéra - z barco e zrcòne d msdàla cul fièn pi' bon in muédo ch, d'invèrno, ciariéda na liòda, la ruès z tabiè cun fién bèn msdò, ch piasìs al béstie Ma "L Palète" era pr nèi trei anch na scopèrta ogni dì pi'interesante. Strache pr al portà erba u pr al sié e, pr curiosité pi' ch autro, inpiantòne duto e dòne propio fin in zima a la "Ruéiba" gno ch bruse, pozlonì, zope d'erba e, prfìn chèlch piantùta, scomnzéa a sboà du. Vardòne l costòn dal Diéba sot d nèi e, ogni tanto,sintùne rumòr dl crode, dl giare ch sbrisé du. Intorne t'avé ozì, mose, véspe e s n'era vento, calch ota t sintìa gni su da ladù l chiéto sbrisé d cal tin d'aga dal giò. Gnè da domandase senpro come cl'agùta podé avèi avù tanta forza d mangé fora duta cla tèra, da fèise na strada così fonda, cui fianche ch s sgretolea, slargéa, fin a fèis tèra e solòn ch de a inpì la diga d santa Catarina. Su cl'autro coston, dala strada ch gné su da Oronze, ogni tanto, se sintìa chèi ch siéa chi pras ch cridéa,parléa, aldìa la croda ch'era ruéda sot la fauze. D rado,e da lontan,ruéa os d canaie zi barche dla Valtaruza. Pr paura d fèise sintì, n parlòne che cul man: s se mostrone chi strane strate d tère d pi' colors, d roce méd soplìde z cl tère; strate d tofo, u così i ne parìa, ch gné fora com blocs a ornamento e difesa d chèlch sotranio manièro. N fnùne mai da vardà e mostrase nuéve forme, nuéve disegne e didòn d cétàse na scusa pr dì anch a "Stalarué d sote" u sul truéi dl Ruéibe gno ch savòne ch s vdéa ncamò mèio n sptacoll tanto pi' bél d chèl ch'avòne sot i nos uéie. Intanto l tempo coréa e, se s déa vèrso mdodì, bisogné pnsà a fèis da mangé. Tornone ilò dal barco e s coiòne do foie d salata z l'ortuùto ch'al pura Lilo avé criò giavàndo fora véce radis e chi dur trovante ch ludìa, bi pr nèi, com l'ardénto. Li, avé provò a inpiantà anch carote e patate, ma l prime rstéa senpro pizlute e l patate s podé giavàle solo d sténbre parchié che s l somnéa solo in dùign. Bisogné, contntase pr forza, solo d n tin d vrdura, ma soralduto, d l'oio ch s'avéa pr conzàla: aron in tenpo d guera!.Chèsto era n polvar daluto, lcadìzo, dinze d na bustina. T podé biciàla sora l'asé e msdàla fin ch gnéa duto olioso. N'ota msdàda, la vrdura savé d bon e, soralduto, cun tin d pan, bastéa pr dì ch t'avé fato na bona marenda inant di scomnzà a tiré su l fién e portàlo z barco. Rstéa, è vèiro, l viaduto fin in zima al Palète per ciarié zal cèso cl'erba lèsa ch avòne portò su, a suiase, pèna bonora. S lo fadéa però cuas lontiéra parchié ch s déa zienza pese e cu la spranza d céta sot l bruse,i pozués u in médo al mus-cio dalete u pulcine. Pasèa così i dopomdodì e, cuan ch al soroio scomnzéa a di du, tacòne a sié ncamò n puéce de andèns intorne e dinze al palù ch era tra l nos e l bosco. Bisogné sta atente pr n dì cu la fauze contro i mughe ch era speso sconte sot l'erba. Dali ote, sbèn ch fos agosto, cétone ncamò càlch bél fior d saéta, pèna fiorù, e n parìa n premio pl nos fadìe, pla cura ch'avòne anch dal palù. Cuan ch s fadè pi' tarde. in Piedo Pìzal i gnoche inpzéa i fuéghe, cridé da noze, ciantéa. Era pr nèi ora d sarà l barco e tornà a céda. |
ALLA
RICERCA DI ERBA DA FALCIARE Che bei tempi quando a Danta c'erano così tante mucche che erano costretti a suddividerle in due mandrie per portarle al pascolo, ben controllate dai pastori, sia a primavera che d'autunno! Bei tempi, s'intende, per il latte, il formaggio, la ricotta ed il burro che potevi trovare, sempre freschi, dal proprietario delle mucche oppure su nella latteria sociale. Mantenere, però, una o due mucche, voleva anche dire di poter disporre di fieno per la durata dell'intero inverno e, se possedevi pochi prati su cui segare l'erba, bisognava andare a cercarla, durante l'estate, nei posti dove nessuno se la sentiva d'andare perché troppo scomodi o con erba troppo bassa ed il gioco non valeva la candela. Di solito, all'epoca in cui si falciava il "fien da pèilo" (nei prati incolti lo si tagliava solo una volta l'anno perché l'erba cresceva bassissima), tutti cercavano di ripulire anche attorno al prato, sotto le piante, a fianco ed attorno ai sentieri: tutto andava bene per poter riempire la baita o, almeno, per alzare di un po' il livello del fieno ivi riposto. Così facevamo anche noi tre fratelli quando si andava a falciare a Stalaruè e dovevamo sostituire nostro padre che lavorava lontano. Finito di falciare il pezzo di prato al di qua dei piloni della stazione della teleferica, andavamo oltre il nostro colle ed i prati di Caio e dell'Iòrio di Bepo Ghelo, scendendo fino alle "Palète" di Attilio di Roch il quale ci aveva concesso il permesso di falciare sulla sua proprietà. Lì c'era tanta "erba lèssa" e si arrivava a falciarla fino sul costone del torrente Diebba. A dire il vero, io non ero un granché: riuscivo a falciare un "andèn" mentre mio fratello Mario ne aveva già fatti tre volte tanto, ma in qualcosa l'aiutavo; il più piccolo invece ammucchiava l'erba. Il peggio capitava dopo. Laggiù, infatti, c'era sempre ombra e non potevi neppur pensare di attendere che l'erba si asciugasse per portarla dopo nella baita. Sapendo questo, portavamo sempre con noi un grande telone dove, di solito, si ammucchiava il fieno e lo si riempiva con quattro, cinque bracciate di erba (compressa con il rastrello) e, sorrettolo sopra la testa, lo si portava fin su in cima dove c'era il sole; lì si spandeva l'erba in lunghi e stretti rettangoli che consentivano poi di rastrellarla velocemente, come quando si segava il prato. Spettava a me ed al fratello più piccolo compiere questo lavoro e portare su in alto i teloni con l'erba, ma più d'una volta, a causa della pioggia o della rugiada, si scivolava ed il telone rotolava giù, senza pietà, spandendo l'erba lungo tutta la discesa. Era un supplizio soprattutto quando si era più stanchi o si aveva fame, e si impiegava sempre più tempo a salire e scendere con questi teloni, ogni volta sempre meno carichi. Giungeva l'ora del mezzogiorno e ci si riavviava verso la baita per girare il fieno in modo che si asciugasse anche nella parte rimasta nascosta, quando il tempo era bello; se invece minacciava pioggia lo si sovrapponeva, come piccole dune, perché non tornasse a bagnarsi completamente. Quando poi si pensava che l'erba portata precedentemente su in cima alle Paléte si fosse asciugata, si tornava lì, sempre coi teloni, e la si portava nella baita - leggera leggera - cercando di mescolarla con il fieno più buono in modo che, d'inverno, una volta caricata su di una slitta, potesse arrivare in fienile con un fieno mescolato in parti giuste per un gradito pasto del bestiame. Ma "Le Palète" costituivano per noi tre anche una scoperta ogni giorno più interessante. Stanchi per il continuo portar su l'erba o per il falciare e, più che altro per curiosità, si piantava lì tutto e si scendeva fino in cima alla "Rueiba" dove arbusti, abetini, zolle d'erba e, perfino qualche pianticella, incominciavano a franare. Guardavamo il costone del Diebba, sotto di noi, ed ogni tanto, sentivamo il rumore dei sassi e della ghiaia che scivolavan giù. Intorno a te avevi uccelli, mosche, qualche volta vespe, e se non c'era vento, tu sentivi salire da laggiù il quieto scivolar di quella poca acqua del torrente. Ci veniva sempre da chiederci come quell'acquetta potesse aver avuto tanta forza da erodere tutta quella terra in modo da farsi una strada così profonda, coi fianchi che s'allargavano, si sgretolavano fino a ridursi in terra e sabbia che andavano poi a riempire la diga di santa Caterina. Su quell'altro costone, dalla strada che saliva da Auronzo, sentivamo, ogni tanto, coloro che stavano falciando quei prati, che gridavano, parlavano, maledivano il sasso che s'era fatto trovare sotto la falce. Di rado, e da lontano, giungevano voci di bambini ch'erano nelle baite della Valtaruza. Noi, per paura di farci sentire, non ci parlavamo che con le mani: ci mostravamo quelli strani strati multicolori di terra; strati di rocce semisepolte tra di esse; strati di tufo - o così almeno ci sembravano - che emergevano come fossero blocchi d'ornamento e di difesa di qualche sotterraneo maniero. Non finivamo mai di osservare e mostrarci nuove forme, nuovi disegni e ci si diceva di trovarci una scusa per scendere anche a "Stalatuè di sotto" o sul sentiero delle Ruéibe dove sapevamo che si poteva ammirare ancor meglio un miracolo tanto più bello di quello che avevamo sotto i nostri occhi. Intanto il tempo correva e se ci avvicinava al mezzogiorno, bisognava pensarci anche al modo di prepararci il pranzo. Si tornava quindi alla baita e si raccoglievano due foglie di insalata in quel piccolo orto che il povero Lillo aveva creato estraendo dal terreno vecchie radici e quei duri trovanti che luciccavano, belli per noi, come l'argento. Lui, aveva anche provato a far crescere carote e patate, ma le prime rimanevano sempre piccoline e le patate le si poteva incominciare a cogliere solo a settembre dal momento che le si poteva seminare solo in giugno. Bisognava, per forza, accontentarsi solamente di un po' di verdura, ma soprattutto, dell'olio che si aveva per condirla. Era questa una cosa leccaticcia, una polvere giallina, conservata in una bustina. La potevi versare sopra l'aceto e mescolarla tanto fino al punto che tutto diventava oleoso. Una volta mescolata, la verdura sapeva di buono e, soprattutto, assieme ad un po' di pane, bastava per dire che avevi fatto un buon pranzo prima di incominciare a rastrellare il fieno e portarlo nella baita. Rimaneva, è vero, quel viaggetto fino in cima alle Palette per caricare nel telone quella "erba lessa" che avevamo portato fin lassù, appena al mattino, perché si asciugasse. Un viaggetto che lo si faceva quasi volentieri perché ci si andava senza portar pesi e con la speranza di trovare sotto i cespugli, le piante d'abete rosso o in mezzo al muschio gialletti o porcini. Trascorrevano così i pomeriggi e, quando il sole incominciava a tramontare, si iniziava a falciare ancora un poche di bracciate attorno e dentro la zona paludosa che si trova tra le nostre proprietà ed il bosco. Bisognava però star attenti a non battere la falce contro il pino mugo le cui radici erano spesso nascoste sotto l'erba. Alle volte, quantunque fossimo già in agosto, trovavamo ancora qualche bel rododendro in fiore e ci pareva fosse un premio per le nostre fatiche e per la cura con cui trattavamo anche questo terreno paludoso. Quando si faceva più tardi, in Piedo Piccolo (località di fronte a Stalarué) gli auronzani accendevano i fuochi, davan il classico grido di gioia, cantavano. Era, per noi, l'ora di chiudere la baita e tornarsene a casa. |
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CH S RIFORNìA N NEGOZIUTO Cuan ch a Danta é sto vèrto cal primo ngozio d fruta e verdura la roba gné portada su, da Sa Stefi, duta cul dèi, travèrso l Col di Morte. S tratéa, pr al pi', d n tin d fruta d stasòn, doi limoign e algo, ma propio algo, d verdura parchiè ch cuas duce somnéa zal so ortuto la salata, l carote, i zède, l fa, l barbabietole, i capuze, i cavoli e n tin d prézemol e selno; zi cianpe inveze tant patate parchié ch s'avé da mangiàle pr duto l'inverno. Pr avèi, sul scole, algo da vènde, bastéa così n dèi d roba, n'òta, doe ala stomana. Chiarel, n bon fornitòr , parcéa sénpro roba fresa ch podéa duré pi' d chèlch dì, savendo chié ch, a Danta, s podéa vende zienza bicé via gnente, né in fadìa, né in sode. Chèlch ota, pr stracàse n tin da manco, s fadéa inveze li Ante, na stradùta ch era pì' longia, ma pi' piana e ziénza radìs e piante ch t'ingianbarea. Solo davdìn l bivio dal capitél d sant'Antone t'avé l problèma d na boa, ma basté sta n tin pi' atènte e t paséa fazilmènte. Cul pasà dal tenpo,i viade a Sa Stefi è gnude senpro pi' spèse parchié ch la dénte s'abituéa a conprà da pi', avendo anch calch franco z fonda. Dopo, oltre a chel ch vndea l tabachin, ala roba da mangé e al stofe du dai Boze, s'à scomnzò a vède sul scole d st'autra botèga anche n tin d pi''roba: cartoline, savoign, dentifrici, rcordins dal paese in lèign, ceramica u mtal. Dopo s'à dontò anch robute pr l céde e l canbre. Bona parte d chèste, fornìde da Danieli, era ldiére e gnéa portade su da Sa Stefi, cul dèi, com la fruta. Pr n viado s btèa n tin pi' d méd'ora pr dì du, conpaign pr ciarié e n'ora e n quarto pr tornà su cu n dèi che, tra na roba e l'autra, pdéa 30-40 chile. Bèn pi' dure inveze i viade in Oronze gno ch se se rifornìa da Mena da Corte ch avéa l negozio tra s.Lugàn e scole d Vilagranda. Done du in doi e ruòne ilò bél strache pr avéi pasò Piedo, l Ruéibe, Vilapizla. Btòne cuas do ore pr sceglie e ciariase i dés: bèn da pi' pr tornà su! Se s déa fora bonòra,s'avéa dante tante ore d lus, ma cuan ch capitéa d cetase là fora pi' tarde, n tocéa fèi duto in présa pr n cétase pr strada d nuéte. Soraldùto n fadéa paura cal bocòn d truéi che, dal pra di ciclamins, n portéa in Piedo dopo travrsàde l Ruéibe. Pi' d n'ota,pr n fral dstudò u carbùro fnù propio ilò, s la son vista bruta, ma s la son giavàda. La pédo pr me é stada cuan ch, propio d nuéte, m'à ciapò n sgranfo. Avéo zal dèi i servizie da café, piate, bicerins ch portone pr la prima ota a vènde. Pdéa duto pi' dal solito e l truéi parìa tanto pi' longo. Cuan ch n'èi pi' podù tignì su l dèi, èi scugnù sta a l'idea d lasà dì inante la mama, spité ch la torne a tòle l mié e seguìla cula so lus. Avòne, infate, solo chèla! E' sto così fin ch son dude fora dal bosco e son ruéde in Piédo. La strada era ncamò longia, ma era pi' béla e èi podù ritòlme su al dèi. Mancéa puéco ali una cuan ch on scartò e btù su na scola dla botèga servizie, bicerins, piate. On tignù, com senpro, chi stèse prezie praticade al publico da Mena da Corte; chèl ch la roba n' avea costò - in fadìa, paura, dolòr- n podéa ése dontò a guadagno. Ei dovù parlà d sta mi éspériénza al fin ch réste l rcordo d com ch s vivéa inclòta z la nostra vecia Danta.. Pnsèi! N'é pasade che zincuanta ane u pueco da pi'! |
COME
SI RIFORNIVA UN NEGOZIETTO Quando, a Danta, è stato aperto quel primo negozio di frutta e verdura tutta la merce veniva portata, da Santo Stefano, con la gerla, attraverso il Col dei Morti. Si trattava, per lo più, d'un po' di frutta di stagione, due limoni e un po', ma proprio un po', di verdura perché quasi tutti seminavano nel loro orticello l'insalata, le carote, i piselli, le fave, le barbabietole, i capuzzi, i cavoli ed un po' di prezzemolo e di sedano; nei campi invece, tante patate perché si sarebbero dovute mangiare per tutto l'inverno. Per disporre, sulle mensole, di qualcosa da vendere, bastava così, una gerla di merce, una volta, due la settimana. Chiarel, ch'era un buon fornitore, preparava sempre la merce fresca che poteva durare più di qualche giorno sapendo ciò che, in Danta, si poteva vendere senza sprecar nulla, né in fatica, né in denaro. Talvolta, per stancarsi meno, si faceva invece la strada delle Ante che era più lunga, ma più pianeggiante e senza radici e piante che t'inciampavan. Solo in vicinanza del bivio della cappelletta di santo Antonio avevi il problema di una frana, ma bastava star un po' più attenti e passavi facilmente. Col passar del tempo, i viaggi a Santo Stefano si son fatti sempre più frequenti perché la gente si abituava a comperare di più, avendo anche qualche lira in tasca. Più tardi, oltre a quanto si vendeva al tabacchino, alle stoffe ed alimentari nel nogozio "Bozzo" s'è cominciato a veder in quest'altra bottega anche un po' di materiale per scuola, cartoline, saponi, dentifrici, oggetti ricordo del paese in legno, ceramica o metallo. Si son aggiunte poi anche cosettine per la casa e le camere. Gran parte di queste, leggere, fornite da Danieli, venivan portate a Danta, con la gerla, come la frutta. Per compiere un viaggio si impiegava un po' più di mezz'ora per scendere, altrettanto per caricare ed un'ora e un quarto per risalire con una gerla che, tra una cosa e l'altra, pesava 30-40kg. Ben più duri invece i viaggi ad Auronzo dove ci si riforniva da Mena da Corte nel negozio situato tra s.Lucano e le scuole di Villagrande. Si scendeva in due e si giungeva lì già stanchi, per aver superato Piedo, Rueibe e Villapiccola. Quasi due ore si impiegavano per scegliere la merce e caricarsela nelle gerla: ben di più per risalire. Si andava fin là, di mattina presto, con davanti tante ore di luce, ma se capitava d'essere lì sul più tardi, bisognava far tutto in fretta per non trovarsi, a notte sulla strada. Spaventava soprattutto quel pezzo di sentiero che, dal prato dei ciclamini, ci portava a Piedo dopo atttraversate le Rueibe. E più d'una volta per un fanale spentosi o per il carburo finito proprio lì, ce la siam vista brutta, ma ce la siam cavata. Il peggior momento per me è stato proprio quando, di notte, m'ha preso un crampo. Avevo nella gerla i servizi da caffè, piatti, bicchierini che portavamo - per la prima volta - a vendere. Pesava tutto più del solito ed il sentiero sembrava tanto più lungo. Quando non mi è stato più possibile reggere la gerla, ho dovuto accettare l'idea di lasciar che la mamma proseguisse, aspettar il suo ritorno per prendere la mia gerla e seguirla col suo lume. Avevamo infatti solo quello! Così si è fatto fino a quando, usciti dal bosco, siamo giunti a Piedo. La strada era ancor lunga, ma era più bella ed ho potuto riprendermi la gerla. Mancava poco all'una quando, tolta la carta che avvolgeva le cose fragili, sono state riposti sulle scansie i piatti, i servizi, i bicchierini. Abbiamo conservato, come sempre, gli stessi prezzi praticati da Mena da Corte al pubblico: quanto la merce ci era costata - in fatica, paura, dolore - non poteva esser aggiunto quale guadagno. Ho dovuto parlare di questa esperienza affinché rimanga il ricordo di come si viveva allora nella nostra vecchia Danta. Pensate! Non son trascorsi che cinquant'anni o poco più! |
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CUAN
CH SE INAGHEA I TELE Ei bel dito, da autra parte, che intorne al paese era tance cianpe coltivede a lin e cuan ch al fiorìa, tra chei dl patate e l verde dli erbe, t parìa na tavoloza intarsieda d tonalità com chela useda dai pitors. N'ota ch al lin gné coiosto e btù a suié, bisogné gramolalo e, ridoto a filo, s lo portéa da Tinuto ch avéa l telaio e parcea i tele ch la dente dopo dontea pr fei lanzues pr liete da na persona u matrimoniai. Fnù l sto laoro tocié al femne betli a inagà e fei canbié fisionomìa ai pras. Chesto gnè fato soralduto dopo ch'era sto sieto l'otiguei e s dea verso l freido. I tele gné poiede, un dopo l'autro, sul pra neto, in doe u pi'file, scondo cuanc ch t'avé fato fei e t noté lolo, dal socolor pi' u manco scuro, cuanto coton che t'avé fato dontà pr rendli manco dure. Man man ch al laoro d Tinuto dé inante, aumntea anche i tele stndude zi pras davdin l cede. Duto l resto parì fermo, senpro conpaign, salvo chelch baro d fède ch s muovea in zerca d piluchè n tin d'erba. Po', finalmente t vdè n tin d movimento in pi'zi orte e zi cianpe d patate: l nuete era gnude pi' freide e, da na dì al'autro, podè rué la broda ch giazé duto. La dente savé ben com difende cal pueco che i dadé i cianpe pr lasa ch lo mange la broda e così cla tavoloza avé canbiò color: l verdo dal prà in maron, cianpe e orte lasé vede solo l negro dla tera. E na nuete, inprovisamente, la broda inpìa duto d bianco e solo i tele rsté ncamò scure scure . S lvé l soroio e sto biancor ch ciapé duto gnè n specio ch ludìa, ch parì vivo cul muovse dli erbe man man ch la geza gnè aga e tomè du ldierendole. T podè sta ilò a vardà pr ore intiere e t vdea cal bianco ch pasé dal color dal zielo al'oro che cuerde i nos monte cul di du dal soroio. Man man ch pasè l stomane i tele inagade s fadè pi' bianche e senpro pi' rstueigns. Duto z n'ota, pras, orte e cuerte dl cede s'era fate bianche: era ruò l neve. I tele, gnud lanzues, avrà presto cetò posto z chelch lieto u zi armers com roba da coredo. Da n cianpo a ilò, fato duto da dente d Danta. |
QUANDO
SI METTEVANO A SBIANCHIRE I TELI Ho già scritto, in altra parte, che tutto attorno al paese c'erano tanti campi coltivati a lino e quand'era in fiore, tra quelli di patate ed il verde delle erbe, ti sembrava una tavolozza intarsiata di tonalità come quella usata dai pittori. Una volta che il lino veniva raccolto e messo ad asciugare, bisognava passarlo sulla "gramola" e ridotto a filo, se lo portava da Tinuto che aveva il telaio e preparava i teli che poi la gente congiungeva per farne lenzuola adatte a letto matrimoniale o singolo. Terminato questo lavoro spettava alle donne porli ad imbianchire facendo cambiare aspetto ai prati. Ciò avveniva soprattutto dopo la seconda fienagione e si andava verso la stagione fredda. I teli venivan stesi, uno dopo l'altro, sul prato ben pulito, in due o più file secondo di quanti ne avevi fatto preparare e notavi subito, dal loro colore più o meno scuro, quanto cotone era stato aggiunto per farli meno ruvidi. Man mano che procedeva il lavoro di Tinuto, aumentavano anche i teli distesi sui prati vicini alle case. Tutto il resto pareva fermo, sempre uguale, salvo qualche gregge di pecore in cerca di fili d'erba da mangiucchiare. Finalmente poi vedevi un po' più di movimento negli orti e nei campi di patate: le notti si eran fatte più fredde e, da un giorno all'altro, poteva giungere la brina che tutta gelava. Sapeva bene la gente come difendere il poco che i campi rendevano per lasciare che se lo mangiasse la brina e così quella tavolozza aveva cambiato colore: il verde dei prati era divenuto marron, campi ed orti lasciavan intravvedere il solo nero della terra. Ed una notte, improvvisamente, la brina riempiva tutto di bianco e solamente i teli stesi sui prati rimanevano ancora scuri scuri. Si alzava il sole e questo biancore che tutto abbracciava diventava uno specchio che luccicava, che dava l'impressione d'esser vivo col muoversi delle erbe man mano che il ghiaccio diventava acqua e cadeva alleggerendole. Potevi rimanere lì ad osservare per ore intere e vedevi quel bianco che passava dai colori del cielo all'oro che copre i nostri monti al tramonto del sole. Man mano che trascorrevano le settimane i teli messi a macerare si facevan più bianchi e sempre più radi. Tutto ad un tratto, prati, orti e teti delle case s'eran fatti bianchi: era giunta la neve. I teli, diventati lenzuola, avranno presto trovato posto su qualche letto o negli armadi come biancheria da corredo. Da un campo a lì, tutto fatto da gente di Danta. |
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Gramola:
cassetto rettangolare in legno, lungo, stretto, senza fondo. Un grosso legno,
di uguale lunghezza, agganciato sulla sinistra ad un perno, permetteva di
battere ritmicamente i mannoli del lino al fine di eliminarne la parte legnosa.
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IN VAL CIORì
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IN
VAL CIORì Fuoco, gramole e frotte di bambini in ascolto di storielle. La stradetta che partiva dalla latteria sociale e scendeva verso Ciadà, a metà Val Ciorì, si divideva per giungere anche dalla cappelletta del Cristo di fronte alla casa dei Mattea. Proprio lì, al bivio, c'era una bella piazzolla che, nel corso dell'autunno, raggruppava una buona parte di bamnini con cinque, sei donne di una certa età. Dico così per non defnirle vecchie perché tra le lunghe gonne scure ed il fazzoletto nero che tenevano sulla testa tu potresti solo considerarle vecchione anche se non raggiungevan forse i cinquanta. Con tutta probabilità queste donne erano le più pratiche del lavoro che avrebbero dovuto fare se tutti contavano quasi esclusivamente su di loro. In una giornata qualsiasi scendeva lungo la via principale un dei tuoi compagni che t'invitava ad andare subito in Ciorì dove avevano già acceso il fuoco e sistenato le gramole. Era, per noi, la novità che aspettavamo e, un po' alla volta, ci ammassavamo in troppi per il piccolo spazio che restava libero da attrezzi, mannelli di lino e donne che, per liberarsi di noi, facevano che la più debole ed addetta al fuoco ci attirasse da una parte con la scusa di raccontarci storie. Gettati alcuni pezzi di ceppaia sulle braci appena preparate e mentre le altre slegavano i mannelli, lei iniziava: "Una volta un vambino come voi" .ed ogni storia proseguiva con incontri con la malora, i Malspiriti, con le Anguane per finire con la Compisseda che le madri sapevano sempre abbindolare con lo scopo di salvare i propri bambini. Man mano che proseguiva nel racconto di queste storie, ella prendeva i mannelli ben slegati e li passava avanti ed indietro sul fuoco in modo che la parte dura e legnosa del gambo del lino si bruciasse pian piano. Li passava allora ad una di quelle che con una mano, ritmicamente, alzava ed abbassava quella specie di gran martello della gramola e con quell'altra faceva passare stto i mannelli in modo che venissero schiacciati e si staccasse la parte legnosa da quella filamentosa che rimaneva. Il tutto veniva coperto dal rumore del legno quando batteva sul fisso della gramola e s'ingigantiva con l'eco che riempiva la Val Ciorì da santa Barbara fin giù verso il Rio Mauria. Per noi, il momento più bello era quando contemporaneamente tre o quattro lavoravano sulle gramole e, quasi per aiutare le donne a battere in pieno accordo, noi cantavamo con la tonalità della Mdana (la) e della Rocca (sol). "Uno - due; uno - due; uno - due". Ad una certa ora, tanto di mattino che di pomeriggio, giungeva qualche giovane per portare alle donne il caffè ed un pezzetto di pane. T'accorgevi subito se il lavoro era fatto per famiglie benestanti o povere dal profumo che emanava: solo caffè d'orzo oppure allungato con una goccia di grappa. Il lino già battuto e pronto per essere portato da Tinuto, veniva posato su di un cesto o in un grande vaglio e, da quanto vedevi che vi era stato inserito, giudicavi se avevano lavorato con lena o se invece erano stanche. Ma chi invece se la godeva per ore e ore a starsene lì a guardare e ad ascoltare quelle storie che non facevano più paura, eravamo noi. Si sapeva che le nostre madri non avevano tempo di inventarsi qualcosa di più allegro magatr e che ci desse speranza di trovarsi davanti ad una storia più bella con un finale più leggero. Ma anche le giornate con questi strambi racconti avevan purtroppo fine, più o meno presto a seconda di come era andata la stagione e di quanto lino avevan prodotto i campi. E la durata delle nostre giornate di gioco tra le gramole era condizionata dalla stagione. Per questo, già guardando il tempo dell'estate ci si consolava quando si prevedeva una buona durata dei nostri incontri in Ciorì. Il nostro sogno, rientrati in casa, era quello di poter convincere le mamme di portarci con loro fino in quella di Tinuto, nel momento in cui fossero andate a consegnare il lino ed il cotone acquistato per mescolarlo al fine di ottenere lenzuola un po' più tenere. La mia mi ci ha portato solamente due volte e sono rimasto incantato a vedere quell'enorme telaio e lui che lo moveva con i piedi mentre, con le mani, gettava il fuso da una parte all'altra tra quella specie di pettini. Divenuto più grande, sono andato con sua figlia Santina a vedere ancora con che cosa lavorava e come si fosse conservato questa enorme macchina che occupava mezza stanza. Ho saputo, tempo dopo, che una sua parte è ben custodita, ma se anche il telaio fosse ancora intero nessuno lo saprebbe più adoperare. E poi, da queste nostre parti, chi semina più lino al fine di preparare lenzuola che oggi te le trovi ormai in tutte le fiere ed i marocchini te le portano in casa anche quando tu non le richiedi! |
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Chel ch v conto l'ei sintù solo dai vece e dai fis d chi ch'à vivù chi momente. Infate, nsun documento parla publicamente dl lotte ch è stade tra na parte e l'autra di aministrators e dla dente dal paese cuan che i se è cetade a decide se feise na strada nueva ch gnès su da Cianpdel u dorà na parte d chela ch gné su da Sa Stefi e n colghea a Oronze. Chesta , dita "dli Ante", era duta a soroio, ma avé di punte gno ch la sboea du e pr d pi'. ruea masa basa in confronto dal paese; pr d pi', n la srvia pr nsun bosco. Chela da fesise cuas duta nueva sarà pasada inveze in medo a chei dla Regola e davdin al proprietà dla gedia e d diverse private. La prima decisione d progetala da Cianpdel è dal 31 otobre dal 1911. Passa l tenpo e s scomrnza a fortifichè Comelgo e Cadore e bisogna cuindi avei strade nueve u pi' sicure. La prima richiesta d'invio dal progetto d sta nueva nostra strada porta infate la data dal 14 dzenbre dal 1914. Però bel ai 24 d mai d l'an dopo l'Italia entrea in guera e, dal '17, cu la disfata d Caporeto avone i todese z ceda e fortificazion e strade abandonade. Apena ai 10 novenbre dal 1924 ne vien soleciteda la ripresa dli opraziln d'asta. I prme aconte su l'avanzamrnto di laore dal I° e II° loto vien pagade rispetivamente ale Dite Quattrer e Iaco Doriguzzi in luio e dzembre 1927; pr al III° e IV loto a la Dita Dalla Corte in duign e novenbre dal 29. Apena zal dzembre 1933, a sié ane dal'inizio di laore, se aprovaa l colaudo d sti doi ultme lote. Cul pasà dal tenpo e d n'autra guera, su sta strada, gnuda masa strenta, pasa ades camie e machine e bisogna slargiala. Ai 31 genaio dal '51 s'aprova l progeto d'alargamento prevedendo n mutuo d 30 milioign d franche. Doi dì dopo s decide d paga cun taio straordinario d piante e d consrvà però la richiesta d mutuo. Ai 19 genaro dal '55 se aprova la licuidazion finale che prevede na spesa totale d 73.678.700 franche. Cul pasagio ala Provinzia dla Cianpdel-Danta-Passo sant'Antonio, l Comun n spndarà pi' pr sta strada e s la cetarà gratis sfaltada,- dal 1960 prfin la traversa comunal!- ntada anche d'inverno, cui mure d sostegno rifate e rinforzade e bruse e pozlonì senpro curede pr ch n i intrighe l pasagio. |
LA
STRADA DANTA - CAMPITELLO Quello che vi racconto l'ho appreso solo dai vecchi e dai figli di chi ha vissuto quei momenti. Infatti, nessun documento parla pubblicamente delle lotte che si sono accese tra una parte e l'altra di amministratori e della gente del paese quando si son trovati a decider se costruire una strada nuova che salisse da Campitello oppure usare una parte di quella che veniva da Santo Stefano e ci collegava ad Auronzo. Questa, detta "delle Ante", era tutta esposta al sole, ma in certi punti franava e, per di più, arrivava troppo in basso in confronto al paese ed inoltre non serviva alcun bosco. Quella da costruirsi quasi tutta nuova sarebbe passata invece in mezzo a quelli della Regola e davanti alla proprietà della Chiesa o di diversi privati. La prima decisione di progettarla salendo da Campitello è del 31 ottobre 1011. Passa il tempo e si incomincia a fortificare Comelico e Cadore ed è quindi necessario disporre di strade nuove e più sicure. La prima richiesta di trasmissione del progetto di questa nostra nuova strada porta infatti la data del 14 dicembre 1914. Però già il 24 maggio dell'anno successivo l'Italia era entrata in guerra e, nel '17, con la disfatta di Caporetto avevamo i tedeschi in casa e fortificazioni e strade abbandonate. Appena il 10 novembre del 1924 ci viene sollecitata la ripresa delle operazioni per l'indizione dell'asta. I primi acconti su avanzamento dei lavori del I° e II° lotto vengono pagati rispettivamente alle Ditte Quattrer e Giacomo Doriguzzi in luglio ed a dicembre del 1927; per il III° e IV° alla Ditta Dalla Corte a giugno e novembre del '29. Appena nel dicembre del 1933, a sei anni dall'inizio dei lavori,viene approvato il collaudo su questi due ultimi lotti. Col trascorrere del tempo ed il passaggio di un'altra guerra, su questa strada, divenuta troppo stretta, vi passan camion e macchine e bisogna allargarla. Il 31 gennaio 1951 se ne approva il progetto di allargamento prevedendo un mutuo di lire 30 milioni. Due giorni dopo si decide di farvi fronte con un taglio straordinario di piante conservando la richiesta del mutuo. Il 19 gennaio 1955 si approva la liquidazione finale che quantifica la spesa totale in 73.678.700 lire. Col passaggio alla Provincia della Campitello - Danta- Passo sant'Antonio, il Comune non dovrà più spendere per questa strada e se la troverà poi asfaltata - nel 1960 perfino la traversa comunale! - pulita anche d'inverno, con i muri di sostegno rifatti e rinforzati e cespugli ed alberetti sempre ben curati in modo che non ostacolino il passaggio. |
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I
NOME DL STRADE L vecio paese, dopo che i avé fato la fontana, n'era diviso nient'autro ch dal "Tolpo" e t stadéa u sora la gedia u "du pr Vila" L puece cede ch'era sula strada n tin fora d sta direzion ciapé l nome dal paese che t cetèa dendo inante su cla strada. E' nasud così via Gera, Via Oronze, via Sa Stesi. Cal brazo d puece cede dala pieza verso Piedo s'à ciamò Vila Pizla. La parte central dal paese è senpro stada inveze "Du pr Vila". u "Vila Granda". Così la s'à continuò a ciamase fin che i à do l nome ufizial d "Via Maggiore" Na disposizione d Mussolini, Capo dal Governo, la fa gnì Via Roma il 31 agosto dal 1931. Anche via Oronze canbia nome ai 4 d febraio dal 1938 e s ciamarà Via Marconi in onor d sto italian, morto l'an inante, e che cu n segnal radio mandò dala cabina dl'Elettra, avé fato inpizé l lude zal munizipio d Sidney. Bisogna rué ai 28 marzo dal 1985 pr cetà na nueva via: é Via Vantaden che parte da Via Marconi e va fin su in Salvra.Sarà però ai 5 d'aprile dal 1986 che fioris etre vie: Via Mazzini da via Roma a via Sa Stefi; Via Monte Piedo dal 27 d via Marconi ala Duda; Via Aiarnola dal 43 al 49 d via Marconi Via Papa Luciani duta la nueva Panoramica. |
I NOMI DELLE
STRADE Il vecchio paese, dopo che gli avevan costruito la fontana, non era diviso nient'altro che dal "Tolpo", ed abitavi o sopra la chiesa o "Giù per Villa". Le poche case che si trovavan sulla strada un po' fuori di questa direzione prendevano il nome del paese che incontravi aproseguendo su di essa. Son così nate Via Gera, Via Auronzo, Via Santo Stefano. Quel braccio di poche case dalla piazza verso Piedo è stato chianato Villa Piccola. La parte centrale del paese è stata invece sempre definita "Giù per Villa" o "Villa Grande" Così la si è continuata a chiamare fino a quando le è stato dato il nome ufficiale di "Via Maggiore". Una disposizione di Mussolini, Capo del Governo, la fa diventare Via Roma il 31 agosto del 1931. Anche Via Auronzo cambia nome il 4 febbraio del 1938 e diventerà Via Marconi in onore di questo italiano, morto nell'anno precedente, che con un segnale radio trasmesso dalla cabina dell'Elettra, aveva fatto accendere le luci nel municipio di Sidney. Bisogna giungere al 28 marzo 1985 per trovare una nuova via: è Via Valmaden che parte da Via Marconi e sale fin su a Salvera (Forcella Zambei) Sarà però al 5 d'aprile del 1986 che fioriscono altre vie: Via Mazzini da Via Roma a Via Santo Stefano; Via Monte Piedo dal 27 di Via Marconi alla Duda; Via Aiarnola dal 43 al 49 di Via Marconi; Via Papa Luciani tutta la nuova Panoramica. Non ho trovato la data d'intitolazione di quella al Rossin e presto nascerà nelle Ravine la sua parallela. |
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I
SUDINS D DELINA Dì pr Vilapizla è senpro sto l pi' bel pasatenpo d greign e canaiute. Seia sto inverno, insuda u istade e s'anche solo n tin d soroio scanpèa tra l sfese di nughi, t sintìa ben d fora e pi' ldier zal cuere. Pr dis e dis d l'otono i canaie s bté insieme, pi'che zal resto d l'an, pr rué fin dala ceda d Delina. Chesta, ch'era senpro su dal pre,era anch bitueda-sntada ilò dante sula banciuta-a parlà cun luere e contài bel storie d sante u d robute ch fadé ben ai pizi. Duc la scolté, ma davoi la schena i gné su na piantuta e,da sora l so ciò, gné fora chelch ramo cun sudinute verde ch spitone da vede ogni dì pi' negre. "S sède boign,cu i sarà madure,ie vli deio" ela didea. E nei a spité cal dì, ma n rué mai! E così, du du l soroio,n t vdé pi' nsuign pl strade parchié ch scomnzé anche a rinfrscà, ma i sudins, n tin a l'ota, sparìa N me ricordo d avei mai ciapò un maduro da Delina e nanch ela n'è mai riuscida a vedi bì e fate. Ades n par veiro ch a chi tenpe s podès gnì mate pr doi sudins verde e robai pr al gusto d tignii z man, ma pnsèi chiè ch era, pr Danta, chl'unica veira pianta da fruto s t tole l maras-cèr salvario! N'avon autro ch bruse d nodéle, giadne, fradne e muie. E chi ch n'era mai du fora d paese n'avé mai podù vede nsun'autra pianta d frute. Ma una com chela d Delina-ch n tocé i trei metre - crsuda tacada al muro, z cal tin d tera ch lo dividé dala strada e ch ades è gnu n tin d marciapé, chi podarà pi'' brama d tociala com nei ? S autro n'avone e soralduto d'autro n s'insognone, bel sta piantuta però n dadé muedo d spitase algo d bon e d bel. |
I
SUSINI DELLA ADELINA Andare verso Villapiccola è sempre stato il più bel passarempo di grandi e bambinetti. Sia stato inverno, primavera o estate e se anche un solo po' di sole riusciva a sfuggire di tra gli squarci delle nubi, ti sentivi bene fuori di te e più leggero nel tuo cuore. Ma per giorni e giorni nel corso dell'autunno i bambini si riunivano, più che in tutto il resto dell'anno, per arrivare fino alla casa di Delina. Questa, che se ne stava sempre su dal parroco, era anche abituata - seduta davanti alla sua casa, sulla panchina - a parlare con loro e raccontar loro belle srorie di santi o cosette che potevan far bene ai piccoli. Tutti la ascoltavano, ma alle sue spalle cresceva una pianticella e da sopra la sua testa, usciva qualche ramo con susinetti verdi che speravamo di poterli vedere, ogni giorno, più neri. "Se sarete buoni, quand'essi si saranno maturati, io ve li darò" lei ci diceva. E noi sempre ad aspettare quel giorno, ma non giungeva mai. E così, una volta tramontato il sole, non vedevi più nessuno per le strade perché incominciava anche a far più fresco, ma un po' alla volta i susini sparivano. Non mi ricordo d'averne mai ricevuto uno maturo da Delina e neppure mi è mai stato possibile vederne di belli e fatti. Oggi non par vero che a quei tempi si potesse far pazzie per due susini verdi e rubati per il solo gusto di senrirseli in mano, ma pensate che cosa era, per Danta, quell'unica vera pianta da frutto se togli il maraschio selvatico! Non avevamo altro che i cespugli delle nocciole, mirtilli, fragole e lamponi. E chi non se n'era mai uscito dal paese non aveva mai potuto vedere ness'un'altra pianta da frutto. Ma una come quella di Adelina - che non raggiungeva neppur i tre metri - cresciuta vicino al miro, in quel po' di terra che lo divide dalla strada e che ora è diventato un po' di marciapiede, chi potrà più bramare di toccarla come noi? Se null'altro avevamo e soprattutto se di null'altro ci sognavamo, già questa piantina però ci dava modo d'attenderci qualcosa di bello e di buono. |
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