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Cronaca e raconte- Cronaca e racconti

Una minuziosa ricerca nella memoria dell'autore ha portato alla luce racconti, aneddoti e descrizioni dei vecchi dantini e dell'autore stesso bambino. Non mancano racconti di simpatiche bricconate e descrizioni dei giochi di una volta.

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A SANT'ANTONE E AL "BUS" D ZSTELA

Bsogna senpro tornà in davòi d tanc ane pr podèi capì com ch s vivéa z chi ténpe. Pr i canaie soralduto,e dì pr dì, la vita passéa tra cèda,scola, gedia,strada ,pras, bosche davdìn l paese.Nanch n s pnséa d podèi di pì lontan zienza avèi dito al mare gno ch s voléa rué e, s chèlch ota s tntéa na scampada, bisogné propio prié ch nl vièna in savèi. Pr fortuna,era la scòla ch n portèa a Tabiarél, in Piédo, in Salvra pr l Spole u pr l Palude e, su pr l Ciòpe, fin a Zstéla e a sant'Antone. Chilò done senpro in duign, quas com in portzsiòn,pr la so fésta. Duto d'intorne era bél: i lars s'era dsdàde cu na pluria d n vèrdo ldiér; i pozuéss avé biciò fora in zima a duce i so bi rame vèrdoscuro, n ciufo dorò ch s staiéa contra l bianco dl montagne ncamo inevade e n ziél dominò da cal soròio ch spitòne da chèlch mèis. Su i pras, n miràcol ch s ripetéa man manchk t giréa i uéie: giglie bianche daprduto, ciavèi dal Signor, Adamo e Eva, margherite bianche e dale, aquilegie, bocalète, nontiscordar e,prfin, i giglie rose. Duc coiéa fiore e, n tin a l ota,l capitél e la rete ch riparéa l vièro dla portséla gnéckosì cuérte da sconde l sant'Antone. Mangiuclò, liégre, algo ch i n'avé do davòi e saludò l santo,s tornéa a céda.
In una d ste gite scolastiche, aròne duce sparpagnéde pr i pras tra l capitél e la strada nostra ch dopo giréa pr Oronze. Z n bél postùto a scomnzò a ingrumase n puéce di pì greign zénza ch l maéstre s inacorda ch algo n déa. Ié ero n tin pì lontàn e vdéo canaie ch dé su e dù,dla strada al pra, cun crodute e giara z man.I m a lassò rué ilò davdin, vardò da un d luére e i m a dito:"Scolta l rumòr d ste crode du z sto bus". Prima n capìo chié ch dovéo sintì -anch pr la confusiòn ch fadéa i canaie ch doiéa dintorne -dopo sèi ruò:l crode tomé du e batéa n'ota,do,trèi, senpro pì in du e pì pian su piére grose ch era ilò sote. Ma kqanto sote? Métre e métre, didéa un; diese cl autro; vinte l tèrzo…e su e du cifre ch daliòte n volé dì propio gnente parchié ni savé nanche chié ch'era n "métro".N tin a l ota ,manco canaie pr i pras e senpro da pì intorne al bus.Rua anch l maéstre, s informa e urla da dì via, lolo, prima ch al bus s vèrda da pì e n tir du duce.Tornò n tin d calma n vién dito ch duta cla zona é, sote, piena d bus e ch ogni tanto, la s sprofonda lasando dopo cli òlé ch s vède intorne.Pr nèi chèsto bastéa, ma tanc é tornade dopo,d scònto,a vede s'al bus crséa u s al se avéa cuérto.Cul pasà di ane, n l'èi pì rivisto; n'ota sprofondò l lago d Zstéla, sarà i geologi a fèime rivive l rcrdo d cal bus.E chesta è la so storia!
Quance d Danta, al'infòra di vece, sa, iqkuéi chié ch è sucéso z sto lago ai 12 d luio dal 1980? Cu n telegrama dal sindaco d Danta e Comélgo d Sora vien informò l Genio Civile d Blun che, in cal dì, la parte pizla dal Zestela, dopo avèi biciò su na colona d'aga d chèlch metro, era sprofondada apéd n tin d sponda tacada al chalet ch gné a cétas in pricol. A volù pì d n'ora pr ch al lago s svuéte. La notizia va su duc i giornài e "La Domenica del Corriere"riporta l'ilustraziòn a duta pagina. Vien fato lolo n soraluégo da n geologo dla Region,un dirigente dl'Ispetorato Forèste e un ingegnér dal Genio Civile. Chèsta, ridotta, la relaziòn, da adés in taliàn:
A SANT'ANTONIO ED AL " BUCO " DI CESTELLA

Bisogna sempre ritornare indietro di tanti anni per poter capire come si vivesse in quei tempi. Per i bambini, soprattutto, e giorno per giorno, la vita la si trascorreva tra casa, scuola, chiesa, strada, prati e boschi vicini al paese. Neppure si pensava di potersene andare un po' più lontano senza aver informato le mamme sulla mèta che si voleva raggiungere e, se qualche volta, si tentava una sfuggitina, bisognava proprio pregare che non ne venissero a conoscenza. Per fortuna c'era la scuola che ci portava a Tabiarél, ai prati di Piedo, in Salvra (Forcella Zambèi) attraverso la strada delle Spole o quella delle Paludi e, salendo per quella delle Cioppe, fino ai prati di Cestella ed a sant'Antonio. Qui, il tredici di giugno, giorno della sua festa, ci si andava quasi come se si partecipasse ad una processione.Tutto all'intorno era bello: i larici si erano svegliati con una peluria di un verde leggero, gli abeti rossi avevano fatto spuntare in cima a tutti i loro bei rami verdescuro un ciuffetto dorato che si stagliava contro il bianco delle montagne ancora innevate ed un cielo dominato da quel sole che stavamo aspettando da qualche mese. Sui prati, un miracolo che si ripeteva man mano che tu spostavi gli occhi: gigli bianchi dappertutto, anemoni pulsatilla, piccole orchidèe selvatiche striate tra il rosso e l'arancione ed altre azzurrognole, margherite bianche e gialle, aquilegie bicolori, mughetti, nontiscordardime e, perfino, i gigli rossi. Tutti raccoglievano fiori e, un po' alla volta, la cappelletta e la retìna che riparava il vetro della porticina venivano lentalmente ricoperte fino a nascondere il sant'Antonio. Dopo aver mangiucchiato, tutti allegri, qualcosa di ciò che ci avevano consegnato nel sacchetto e salutato il Santo, ci si riavviava verso casa.
In una di queste gite scolastiche, ci si era tutti sparpagliati per i prati tra la cappelletta di sant'Antonio e la nostra strada, quella che, al bivio, girava per Auronzo. In un bel posticino hanno incominciato a riunirsi un pochi degli alunni più grandi senza che le maestre si rendessero conto che c'era qualcosa che non andava. Io mi trovavo un po' più lontano e vedevo ragazzi che andavano su e giù, dalla strada al prato, con sassetti e ghiaia nella mano. M'hanno permesso di giunger lì vicino, ma ben controllato da uno di loro e poi mi hanno detto: "Ascolta il rumore di questi sassi, laggiù, in questo buco". All'inizio non capivo ciò che avrei dovuto sentire - anche perché i ragazzi che stavano giocando lì attorno facevano confusione - dopo ci arrivai: i sassi cadevan giù e battevano una volta, due, tre, sempre più in basso e più piano su delle grosse pietre che c'erano lì sotto. Ma, quanto sotto? Metri e metri, diceva uno; dieci quell'altro, venti il terzo e su e giù cifre che talvolta non significavano proprio niente perché chi le pronunciava non conosceva neppure a che cosa corrispondesse un "metro". Un po' alla volta, meno bambini per i prati mentre aumentavano sempre di più quelli che si erano riuniti attorno al buco. Arrivan anche le maestre, si informano di che cosa si tratti ed urlano di andarsene lontano, subito, prima che il buco si apra di più in una voragine che ci attiri dentro tutti. Ritornata un po' di calma, ci viene spiegato che tutta quella zona è, sotto, piena di buchi e che, ogni tanto, essa si sprofonda formando poi quegli avvallamenti che da sempre si vedevano osservando lì attorno. Per noi questa spiegazione bastava, ma tanti sono ritornati dopo per accertarsi se il buco crescesse o se si fosse ricoperto. Col passare degli anni non l'ho più rivisto; saranno però i geologi, una volta sprofondato il Lago di Cestella, a farmi rivivere il ricordo di quel buco. E questa è la sua storia !
Quanti, di Danta, all'infuori dei vecchi, sanno oggi quello che è successo in questo lago il 12 di luglio del 1980? Con un telegramma del sindaco di Danta e di Comelico Superiore viene informato il Genio Civile di Belluno che, in quel giorno, la parte piccola del lago di Cestella, dopo che s'era innalzata una colonna d'acqua di qualche metro d'altezza, era sprofondata assieme ad un pezzo di sponda proprio nelle vicinanze dello chalet che si è venuto così a trovare in pericolo. Ci è voluta più di un'ora perché il lago si svuotasse completamente. La notizia viene riportata da tutti i giornali e perfino "La Domenica del Corriere" stampa l'illustrazione a tutta pagina. Viene subito fatto un sopralluogo con la presenza di un geologo della regione, un dirigente dell'Ispettorato Ripartimentale delle Foreste di Belluno ed un ingegnere del Genio Civile di Belluno. Questa la loro relazione qui riassunta e riportata in lingua italiana:

"L'area in esame è costituita da calcari bituminosi e dolomie con lenti di gessi affioranti diffusamente nei dintorni del Passo Zovo e lungo il Diebba. Pur con la copertura detritica costituita da limi, sabbie e ciottoli di deposito glaciale, la zona manifesta evidenti segni di dissoluzione nei gessi e nelle rocce calcaree-dolomitiche che assumono la forma di "doline". In qualche caso il materiale argillo-limosa o quello fine di origine glaciale riveste il fondo di tali depressioni consentendo il formarsi di ristagni d'acqua. In profondità invece le rocce, causa la dissoluzione dei gessi, si frantumano creando così le doline. Una rapida modificazione dell'assetto in profondità può aver provocato il dissesto del bacino del lago con lo svasamento di circa 8500 metri cubi d'acqua in sole 5 ore. Attraverso una via apertasi tra le rocce facendo scendede di quasi due metri il livello del lago." Condenso una relazione di altri geologi "Lo svuotamento potrebbe essere provocato dalla rottura per dissoluzione di un condotto o cavità carsica sottostante. Il getto d'acqua che ha preceduto il fenomeno può essere attribuito ad una fuoriuscita d'aria dalla cavità sotterranea. Il volume d'acqua immesso nelle sottostanti rocce intensamente carsificate, disperdendosi nel complicato reticolo di canali, avrà probabilmente provocato l'effimero incremento delle acque che si è riscontrato sui prati molto più a valle".

L'an dopo, l laguto era tornò al livel d'inante: Giovannin avé tornò a inpì l fonde cun camie e camie d giara e d tera fadendo rivive la bleza dal Zstela zi mil riflese d monte, d pozues, d lars, d zielo.
Nell'anno successivo, il laghetto era tornato al suo livello iniziale: Giovanin ne aveva ripristinato il fondo con camion e camion di ghiaia e terra facendo rivivere il fascino del Cestella nei mille riflessi di monti, d'abeti, di larici, d'erbe, di cielo.

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CHE NUETE DA PAURA!

Com ch sofia l vénto stanuéte!
Par ch al pianda tra l céde giazade, i scure, l fonéstre, l porte sarade. E come n lamènto d géte...E scanpa, e core e s'inrabia. Sauta, ogni tanto, la lus pl strade, zl canbre, zl cede e n t siénte autro ch' al vento  ch subia, ch sbate, ch'è vivo. Ié sèi zal mi lieto d "foiòle" e scolto l rumor ch ié fazo ognota ch m muévo e ch m cuèrdo pr n vède pì’ fòra,pr n piande e trmà. M par ch l so foie m braze, m soléve, m parle sot os e m ciante propio chèl ch ié sintìo cuan ch'ero zal liéto cun mama. Tra l sfèse d n scuro dla canbra la lus dèbla d n fral u candèla s taca , s muéve sul sofito e disegna corone da sante su onbre sbiadide ch pasa. Na os… do... trei… masa!… Un ch parla senpre pì’ forte, Un ch crida, cl'autro che urla... E l tòre ch murla, d nuéte, zal nève! Sora d duto, la os dla Guardia: "Strèndèi l vérsoi e bicèime na brèia! Montèi duce sul sponde e fadèi peso s no li s sèra e n vèrdé la strada pì’ d così "! Adés ei capù e m pasa l trémor. Cuas, cuas m'indormenzo e l foiole s dà pas. Intanto maia, maia, maia . E li os s disperde senpro pì’ lontan, e l vérsoi, cu l sponde p’ large ch s pué, tien vèrta la strada,pr n bèn u pr n mal. N tin a l'òta i è bél ruéde ala"Curva" i à pasò anch al Bus e i tabiàs…. Ma cuanto ncamò ài da provà pr rué a Cianpdél, sul stradòn e tornà dopo casù, cun duto chel che al ziél bicia du ! N'ei fnù ncamò da pnsà ch siento cridé: "Omi cun lus e badìs ! Priàn é sto cuerto dal gionfdo. Don duce, lòlo, ladù a cetalo!" Fèmne e vece s'ingruma cui doign, duce core e va du pla pì’ curta. T siènte dalduto:parolaze e invocazion, med bstemie a chi ch dis bel l "Rechie" e AvMarie da chi ch n s dà pr vinto. N tin a lota cresce li os e torna a ludì tant lus sul sofito. Siento chi porta Prian, su na lioda, fin dant la so ceda.Pian pian la dente va via. Doman duce avrà algo d contase Ie invece, ncamò incuei n sei dì  s'à durò un'ora u dapì l tenpo a cétà cal poròn cuas soplù sot al nève giazò. Sèi solo ch cu penso a calch mi dì, da rieduto, rivèdo l mi liéto d foiòle ch me sauda na nuéte d paura. Chisà se la lana e l mole d'incuei pué ncamò dà forza e soliévo e fèi ciaudo zal cuere dn rieduto ch s céta sarò z na canbruta cu l nève ch soplis anch i omi ! Ma è meio n pnsà pì’ a chi tenpe! Incuei n'é pì’ vrsois tirede da vacie e, cuas,cuas, mancia prfin al nève. S dopo la rua, cuan ch la tocia i trèi schèi s muéve lòlo la ruspa u la pala cul lame ch fa gnì la strada zienza i bude dl'istade. Manciarà però chèl ch criéa algo d nuévo z l'eterno silenzio d n paesuto spardù lasù,gno ch solo l stèle, anche s maia, maia e po maia, à algo da dì a chi ch sa scoltale anche zal cuére d na nuéte ch dà vita a sogne d riedute,d grèign, a spranze ch forse n dirà mai a bon fin.

CHE NOTTE DA PAURA !

Come soffia il vento stanotte!
Pare ch'esso pianga tra le case gelate, le imposte, le finestre, le porte chiuse. E' come un lamento di gatti. … E scappa, e corre e s'arrabbia. Si spegne,ogni tanto, la luce per le strade,nelle camere,nelle case. e non senti nient'altro che il vento che fischia, che sbatte, che è vivo. Sono nel mio letto di "foglie di granoturco" ed ascolto il rumore che io faccio ogni volta che mi muovo e mi copro per non vedere più fuori,per non piangere e tremare. Mi pare che le sue foglie mi abbraccino, mi sollevino, mi parlino sottovoce e mi cantino proprio quello che io sentivo quando ero nel letto con mamma. Tra le fessure d'una imposta della camera una debole luce d'un fanale o di candela s'attacca , si muove, sul soffitto e disegna corone da santi su ombre sbiadite che passano.
Una voce…due…tre…troppe!… Uno che parla sempre più forte, uno che grida, un altro che urla… E le giovenche che muggiscon, di notte, nella neve! Sopra di tutto la voce della Guardia: "Restringete il fendineve e buttatemi una tavola! Salite tutti sulle sponde dandogli peso altrimenti si restringe e non apre la strada più di così"! Ora ho capito e mi passa il tremore. Quasi, quasi m'addormento e le "foiole" si danno pace. Intanto nevica, nevica, nevica E le voci si disperdono sempre più lontano e il fendineve,colle sponde più larghe possibili, tiene aperta la strada, per un bene o per un male. Un po' alla volta son già giunti alla Curva han passato anche "il Buss" e i fienili…. Ma quanto devono ancora provare per giungere a Campitello, sullo stradone e ritornare poi fin quassù, con tutto quello che il cielo rovescia ! Non ho ancora finito di pensare che sento gridare: "Uomini con lanterne e badili - Cipriano è stato sepolto dalla tormenta. Andiamoci tutti, subito, a cercarlo laggiù". Donne e vecchi si riuniscono ai giovani, tutti corrono e scendono per la via più breve. Senti di tutto: Parolacce ed invocazioni; mezze bestemmie a chi recita ormai il "Raequiem" Ma Ave Marie da chi non si dà per vinto. Un po' alla volta crescono le voci e tornano a luccicare i riverberi sul soffitto. Sento che riportano Cipriano, su di una slitta, fin davanti casa. La gente, pian piano, se ne va. Domani tutti avran qualcosa da raccontarsi Io invece, ancor oggi, non so dire se è durato un'ora o di più il tempo richiesto per trovare quel poveretto quasi sepolto sotto la neve gelata. So solo che quando penso a qualche mio giorno da bambino rivedo il mio letto di "foiòle" che mi riscalda una notte di paura. Chissà se la lana e le molle di oggi possono ancora dar forza e sollievo e fare caldo nel cuore d'un bambino che si trova rinchiuso in una cameretta con la neve che seppellisce perfino gli uomini! Ma è meglio non pensare più a quei tempi! Oggi non ci sono più fendineve trainati da mucche e, quasi quasi, manca perfino la neve. Se poi essa arriva, quando sale a tre centimetri, si muovono subito la ruspa o la pala con lame che rendono la strada senza i buchi dell'estate. Mancherà però ciò che creava qualcosa di nuovo nell'eterno silenzio d'un paesetto sperduto lassù, dove solo le stelle, anche se nevica, nevica, nevica, hanno qualcosa da dire a chi sa ascoltarle pur nel cuore d'una notte che dà vita a sogni di bimbi, di grandi, a speranze che mai forse si realizzeranno.

Cipriano: lo stradino comunale
Curva e Buss: zone sulla strada all'inizio del paese
Foiòle: foglie delle pannocchie
Il "Vrsoi", il fendineve allora in uso, aveva sponde in legno usate ad apertura variabile secondo lo spessore della neve. Non essendoci cavalli in paese, esso veniva trainato da decine di mucche e giovenche a causa del loro scarso potere di traino.


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DANTA…...BOMBARDATA


Aron in tenpo d guera Pì d n'ota, d nuete e d dì,t sintìa rumor d'aerei ch pasèa sora d nei, ma chel ch t vdea pì speso era Pipo - così duc lo ciamea - ma li n fadè paura parchié ch solo l t gire sora, zienza mai bicè du né bonbe,né chi bi fils d'ardento ch i canaie coré a tol su. N s'avé paura nanche d chi greign,ch fadè n runor ch'inpia l zielo, parchie chei dea solo a bonbardà l zità, l ferovie, i ponte e l paese n'avea né chese, né chei. In Danta duto dea inante com ch podé dì inante n paese zienza omi, militars duce!, e cu solo dovnete e femne ch porté inante i laore pr l legne, pr i pras, pl stale e i tabias. Un d chese, pizluto e cuas isolò su in ciò d via Gera, era di Ciands e chese, pr al gusto di pituralo, avè dorò duc i colors ch i podei rincurè da l'un e dal'autro. Sto tabiaruto, vardò da lontan, era com mimetizò e parì propio cl robe militare ch t vdèa cuan ch i soldade era in manovre. Chiè elo, chiè n'elo, na dì, na scuadrilia d bonbardiers pasa sora Danta. Un à scomnzò a sbasase e du, du, senpro pì baso fin ch s'à visto ch'al molé du algo. Era na bonba e n s'a dovù sonà l cianpane pr cla dente cora a ved s'era da studè fuego: n'era pì’ bisogno d niente. Era rstad bocoign d muro ineride e breie ridote a stecs com chei ch t vede cuan ch n fulmi à ciapò in pien na pianta. N peso da ds-ciaré u n colpo intnzional? Mah! Fnida la guera, l tabié é sto rifato pì’ in gran. Incuei è gnu na bela vileta e forse n starà mal na tabluta ch rcorde sta strana avntura pr Danta.

DANTA ……BOMBARDATA

Eravamo in tempo di guerra. Più di una volta, di notte e di giorno, sentivi il rumore degli aerei che passavano sopra di noi, ma quello che vedevi più spesso, era Pippo - così tutti lo chiamavano - ma lui non faceva paura perché solo ti girava sopra, senza mai sganciarti bombe, né buttarti quei bei fili d'argento che i bambini correvano a raccattarli. Non s'aveva paura neppure degli aerei grandi, che facevano un rumore che riempiva il cielo, perché quelli andavano a bombardare solo le città, le ferrovie, i ponti ed il paese non aveva né questi, né quelle. In Danta, tutto andava avanti come poteva procedere un paese senza uomini, militari tutti!, e con solo giovinette e donne che portavano avanti i lavori per la legna, per i prati, per le stalle ed i fienili. Uno di questi, piccoletto e quasi isolato su in alto di via Gera, apparteneva alla famiglia dei Ciande e questi, per il piacere di pitturarlo, avevano adoperato tutti i colori che potevano recuperare dall'uno e dall'altro. Questo piccolo fienile, guardato da lontano, pareva come mimetizzato e sembrava proprio quelle cose militari che vedevi quando i soldati facevano le manovre. Che cosa sia stato, che cosa non sia stato, un giorno, una squadriglia di bombardieri, passa sopra Danta. Uno di questi incomincia ad abbassarsi e giù giù sempre più basso fino a quando si è visto che stava sganciando qualcosa. Era una bomba e non si è dovuto suonare le campane perché la gente corresse a vedere se c'era da spegnere fuoco: non c'era più bisogno di niente. Eran rimasti pezzi di muro anneriti e tavole ridotte a stecchi come quelli che vedi quando un fulmine ha colpito in pieno una pianta. Un peso da scaricare o un colpo intenzionale? Mah! Finita la guerra il fienile è stato rifatto più in grande. Oggi è diventato una bella villetta e forse non ci starebbe male una tabelletta che ricordasse questa strana avventura per Danta.


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DUCE A CEDA, POLENTA Z PIEZA

8 stenbre 1943. Da bonora l pre avè tignù n tin pì longia la mesa: era la festa dla Natività dla Madona.Avè dito ch dadsera,pr l'ocasion, l fadea l Rosario cula Bndiziòn. Vien cla ora; sona la Roca- com pl med feste-: tance va z gedia. Po' l paese torna calmo, com dute l sere. Duto intun na cianpana scomenza a sonà, po' doe, po' dute l trei grande e, n tin a l'ota, li os pl strade sormonta l son dl cianpane.La pas! La pas! La dente s'ingruma z pieza po',cuas d corsa,duce z gedua pr n Grazie, n Te Deum.L'armistizio,n s'avé capù, n'era la pas e n s savea chiè ch ne spite dopo.Pasa di dis e scomenza a ruè n soldà da n fronte, un da cl'autro e, pr fortuna, cun bel notizie sui paesane ch torna cuas duce. S fa strada n'idea: na gran polenta z pieza pr l'avenimento. S stablis la sera, s decide chiè fei, chi ch farà, chi ch conpra la roba, com parciè l taule. Pr doi, trei dis l paese e agitò com duce inante d n tenporal e t vede n movimento d doign e d'omi ch sa d strano. Al'ora fisèda, la pieza é piena; i canaie core tra l taule; i coghe e pronte. L fuego é inpizò sot cla ciodiera d ran dal caselo, dorada pr fei la scueta. Tra i reduci, chi rcorda n amigo ch n'é pì’, chi l momento cl'al s'à salvò,chi i pricoi pr tornà a ceda.Tra i tance, è anch n milite da Sa Stefi,ch duce cognosce, ch'é su a s.Barbora cu l'UNPA, la protezion antiarea, atndada lasu."Guera d fadìa,la toa, a vardà aerei in zielo"! - i dis un.
Po', pr n feilo sta masa mal, invida anch li a frmase a mangé la polenta aped luere, ma dopo n "no, grazie" e med parole su "n s puè riunise in pì’ d trei", cu la scusa dla masa confusiòn, saluda chei ch i era pì’ davdin e va via. L'aga pla polenta cuas boìa; i coghe scomnzea a portà vin sul taule; partia l prim canzon Era cuas l momento da bicè la farina cuan ch n'autro milite rua du da santa Barbora, d corsa, e dis che dal Comando d Pieve, informò ch in Danta e in ato movimente sospete, sta ruando forze militari pr rprime la somosa. Solo l pre, ch'era tra i invitade, e doi trei ch avé peso su la dente, riesce a fei sta calme i pi’ agitade e consilié duce d dlibré presto la pieza, ntala, fei sparì duto, tornà a ceda e saràse i portoign. Così e sto, ma tra l rumor d taule e bance spostade t sintia pì’ d na maldizione a "Chel" ch'era la causa d sta dsfata. Pasa pueco pì’ d n'ora e n'autocolona tocia l prim cede dal paese e vien inante cu li arme spianade, puntade contro i portoign e l fonestre cu la paura d'aguate. Cu n ueio tra l sfese di scure i vedo pasà e pueco dopo n siento pì’ l rumor di motore. D sguro alora ni é dude fin in Vilapizla, ma i s sarà frmade su z pieza. E chiè contaràlo ades a luere cal milite? Chiè podarai feine? Pla paura, n conto l tenpo… Dopo n bon tin i motors tade dal duto.. Sona l'ora d nuete. Nsun pl strade: né i nose, né soldade, né chei dl'UNPA.
Zl cede inveze é duto n subuio pla zena manceda e, soralduto, pal dspiazer d n'avei podù nanch saludase in pas,tra duce. Dové ese na festa com in fameia pr al ritorno d sti reduci e on ris-ciò ch i n sbare adoso. E parchié po? Zerto che, in cl'ota, nsun à dito orazion pr chi ch i considrea causa d sta roba . Ma in chi tenpe d coprifuoco e d diviete d'asenbramento, podèlo fei finta d n vede chiè ch in cal momento sucedèa a Danta? Li à fors sbagliò a n fei presente l problema ai organizadors che, parlando cui carabiniere u cun Pieve, podé cetà na soluzion diversa. E anche se, pr chesto,làa ciapò calch maldizion, chesta n'è duda a segno:. Infate, tenpo dopo, li à avù l'incarico ufizial d fei rispté l'obligo d consignè l patate a l'amaso. S puè imagine che lontiera ch i lo ricevea zl fameie tanto pì’ ch, cuan ch i consignea l patate, li dubitea senpro ch etre fos stade sconte zl cianue u zl sofite. E la dente,ch avea solo chele pr nutrise, l dadé via propio controvoia e n-ì sintì d sguro rimorso a sconde pì’ ch i podea. Fnì cu la storia dl'amaso chela nasùda com festa pr chi ch era tornò da na guera n m dà zerto sodisfazion, ma m dspias ncamò ades a pnsà ch a mi com a duc chei da Danta l tristo rcordo di tenpe dl'amaso s leia a cla festa manceda, a na riunion d fameia fnida - sesantadoi ane fa- z cal silenzio ch cuardéa rabie e paura.

TUTTI A CASA, POLENTA IN PIAZZA

8 Settembre 1943. Al mattino il parroco aveva prolugata un po' la messa perché ricorreva la festa della Natività della Madonna ed aveva detto che, alla sera, per l'occasione, avrebbe fatto il Rosario con la benedizione. Giunge quell'ora, suona la Rocca come nelle feste minori: tanti si recano in chiesa. Dopo il paese torna calmo, come in tutte le sere. Ad un tratto incomincia a suonare una campana, poi due, poi tutte le tre grandi e, un po' alla volta, le voci per strada sormontano il suono delle campane. La pace! La pace! La gente comincia ad ammassarsi nella piazza poi, quasi di corsa, tutti si ritrovano in chiesa per un Grazie! Un Te Deum! Non s'era capito che l'armistizio non era la pace e non si sapeva che cosa ci aspettasse per il dopo. Trascorre qualche giorno ed incomincia a giungere qualche soldato da un fronte, uno da quell'altro con notizie, belle per fortuna, su tanti paesani che ritornano quasi tutti. Si fa strada un'idea: una grande polenta in piazza per festeggiare l'avvenimento. Si stabilisce in quale sera, si decide che cosa fare, a chi il compito di farla, chi debba acquistare la roba, in qual modo preparare le tavole. Per due, tre giorni il paese pare agitato come tutti prima d'un temporale e vedi un movimento di giovani e di uomini che sa di strano. All'ora fissata la piazza è piena; i bambini corrono tra le tavole; i cuochi sono pronti. Il fuoco è acceso sotto quella caldaia di rame della latteria sociale, adoperata per fare la ricotta. Tra i reduci, chi ricorda un amico che non tornerà, chi il momento nel quale egli s'è salvato, chi i pericoli vissuti solo durante il ritormo a casa. Tra i tanti c'è anche un milite da s.Stefano, che tutti conoscono, che si trova su a s.Barbara con l'UNPA, la protezione antiaerea, lì attendata.: "Guerra di fatica, la tua, a guardar aerei in cielo"! gli dice uno.
Poi, per non farlo star troppo male, invita anche lui a fermarsi per mangiare la polenta con loro, ma dopo un "no, grazie" e mezze parole biascicate su "non si può riunirsi in più di tre", con la scusa della troppa confusione, saluta quelli che gli son più vicini e se ne va. L'acqua per la polenta quasi bolliva, i cuochi incominciavano a servire vino sulle tavole, veniva dato inizio alle prime canzoni. Era quasi giunto il momento di versarci la farina quando un altro milite scendendo da santa Barbara, giunge di corsa e riferisce che il Comando di Pieve, informato che in Danta sono in atto movimenti sospetti, sta inviando forze militari per reprimere la sommossa. Solo il Parroco, che si trovava fra gli invitati e due, tre di quelli che avevano prestigio sulla gente, riescono a far star calmi i più agitati e consigliare tutti di liberare al più presto la piazza, ripulirla, far sparire tutto, ritornare alle proprie case e chiudere i portoni. Così è avvenuto, ma tra il rumore delle tavole e delle panche spostate tu potevi udire più di una maledizione contro "Quello" che era stato la causa di questa disfatta. Trascorre poco più di un'ora ed una autocolonna raggiunge le prime case del paese ed avanza con le armi spianate, puntate contro i portoni e le finestre con la paura di agguati. Con un occhio attraverso le fessure delle imposte li vedo passare e poco dopo non sento più il rumore dei motori. Sicuramente allora non si sono avviati verso Villapiccola, ma si saranno fermati su nella piazza. Ed ora quel milite che cosa racconterà loro? E questi che cosa ci potranno fare? Per la paura non riesco a contare il tempo che trascorre. Dopo un bel po' i motori tacciono del tutto. Suona l'Ave Maria della sera. Nessuno per le strade: né i nostri, né soldati, né quelli dell'UNPA. Nelle case invece c'è tutto un subbuglio a causa della cena mancata e, soprattutto, per il dispiacere di non esserci potuti neppure salutare in pace, tra tutti. Avrebbe dovuto realizzarsi una festa come in famiglia per il ritorno di questi reduci ed abbiamo corso il rischio che ci sparassero adosso. E perché poi? Certo che, in quella volta, nessuno ha recitato preghiere per chi essi consideravano causa di quest'evento. Ma in quei tempi di coprifuoco e di divieti di assembramento, poteva lui forse fingere di non vedere quello che in quel momento succedeva a Danta? Ha forse sbagliato a non far presente il problema agli oganizzatori che parlando con i carabinieri o con il Comando di Pieve, avrebbero potuto trovare una soluzione diversa. Ed anche se, a causa di questo, gli è stata rivolta qualche maledizione, questa non è andata proprio a segno… Infatti, tempo dopo, lui ha avuto l'incarico ufficiale di far rispettare l'obbligo di consegnare le patate all'ammasso. Si può immaginare quanto volentieri lo ricevessero nelle famiglie tanto più che, quando gli consegnavano le patate, lui dubitava sempre che altre fossero state nascoste nelle cantine o nelle soffitte. E la gente, che disponeva solo di quelle per nutrirsi, le consegnava proprio controvoglia e non accusava sicuramente rimorsi nel nasconderne quante più poteva. Chiudere con la storia dell'ammasso quella nata come festa per chi era ritornato da una guerra non mi dà certo soddisfazione, ma mi dispiace ancora adesso pensare che, a me come a tutti quelli di Danta, il triste ricordo dei tempi dell'ammasso si leghino a quella festa mancata, ad una riunione di famiglia terminata - sessantadue anni fa - in quel silenzio che copriva rabbie e paura.


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PURA NEI!

Ncamò n'ota i vece à avu rson.
Calchdun sa prvede l dsgrazie.


Déo ncamò a scola e,com duc i dis, dopo l cuatro, cun chei dal "Ciantòn Lutin"s déa u zal bosco a tòl pite e doié cula demola u a biandase sote l cornòn dla fontana z pieza. In cal dì, s saròne frmade ilò dal lavatoio. L soròio era du du da puéco. L zime,dal Terze ai Brntogn, dalla Croda d Mdodì al Tudaio, dalle Marmarole a l'Antelao é ncamò dute ndorade. S taia nète z n ziel ch va dal blu a duce i colore dl'arco baleno man man ch t’ auze i uéie fin sora i nughi sotis ch par com ldièrs rodi sfilazade d bonbas. Pi' sote, inveze, i bosche e i pras é senpro pi’'scure e cuas cuerte da nebiute ch n lasa filtré cal tin d lus ch n rua ncamò da sora la Iàrnola. L vace é tornade da pasòn ; s é frmade dante i portoign a spité dai paroign na manada d sal e po' insieme a luére é dude z stala: i omi a monde, èlè a mangiase n tin d fién pr dopo biciase. Ma tornade a céda, duce à algo da dì’ sul béstie d stala, sul pite, prfin sui géte ch gnaulèia e sauta pl strade com mai. Soralduto al casélo, fin che i pèda e i consègna l late, omi e fèmne n s dà pas e, chèi ch vède nègro e ciama dì e nuete dsgrazie, rcorda chl storie d paura,contade chelch ota dai vece su robe che l béstie avéa sintide inant ch l capite, e ch dopo, purtropo,li è ruéde. Pasa li ore… ma che longe! Calchdun spiéta da sintì " l'ora d nuéte" parchié, chi n sa,ch anche l cianpane siénte chié ch pué capité? Un, doi, trei, cuattro colpe d la Mdana; un,doi,…otto d la Roca… Nèi,canaiute, s dadòn la man com s bastès sto gésto pr n sintì chèl ch, s'à capù, tormènta i greign. Luére, duce a fèise n sègno d cros u a dì n Rechie pri so morte. Cliétre sère n s vdéa pi' dente pr strada, ma s-cèra è duto n gran batiboi.Os sora os, canaie ch piande, dente ch s ciama, ch core a vardà sora Ciandìde e l Digòn.E' cuas nuete,ma l ziel senpro pi' roso dla parte dla Pustarìa. "Là, bruda n paese" dis calchdun;"No, d sguro n bosco" ribate chl'autro. Rua un, d corsa, da snt'Antone: "Bruda Padola u Mont Cros"." Coròn a parciase se é bisogno d dì in aiuto, pura dente" bicia là n anzian. Intanto n roso, vivo come al fuego, à bel cuerto duto l zielo fin sora l cianpanin. Li os di grèign cuerde chel di pizi; tode, doign e vece cu la corona varda, spiritede, chel ch lasù s'ingrandis senpro da pi' e tocia bel l Marmarole. "Ma chié spietlo l pre a sonà l cianpane come pla tanpesta e l tenporal? Li sa st robe, li sa d' algo d bruto.Parcnié n vienlo fora?E duto sango, adés, sora d nei. Chèsto è n sègno dal Signor! Li, ch é pre, cal vegna a dà na bndzion u algo ch ne salve"! N tin a lota,scomenza a dì via chei ch èra gnude,pr vardà meio, tra la céda di Struis e chèla di Lutins.Ma résta ncamò tance. Rua, su pr Federico, Tarina da Val, chela ch spiega i sogne,ch siente li os i di morte,ch prvède solo l bruto ch pué capité a duce. Tade. S'ingropa e scopia:"Pura nei, canaie, pura nei! Gnirà guera.Vardèi cuanto sango sora d nei! Pura nei, pura nei"! E' bel nuete fonda e la dente spaurida, ch torna verso ceda, varda cun tin d spranza sora ch al confin ch n separa da l'Austria, gno ch é Lugau, gno ch bel i nos vece déa a pé, in porzsion, a prié la Madona. Chèl era l Santuario pi' davdìn e ch duce cognoséa sbèn ch- pr rué- bisognéa caminé cuas dies ore pr i truéis. Incuéi n'é pi' chi tenpe, ma cuan ch s fa strada la paura dal mal, dl disgrazie, dl tragedie pr nei u pr l fameie, s torna a fèi com ch fadea i vece: n sègno d cros, n'Ave e n Pater e, cuan ch s la vède bruta,anch na corsa z gédia pr cetà l pré e ordiné na mèsa. Così è sto anche dopo d cla nuéte.Avea spaventò duce cun  cal fuego ch'avea cuerto nughi e stèle e strènto l cuére ai pi'. L pré à ciapò li oferte per tante mese s bèn ch al spieghéa a duce d chié ch s èra tratò: "N'era niente da spaventase. E' solo na roba ch, da nei, rua puece ote: su, zi lueghe davdin l Polo, capita tanto spèso, pi' u manco marcada,e n spaventa nsuign. E' n fenomeno ch s ciama: Aurora Boreale". N tin a lòta la dente s'à pardù via u, cardéndo al pré, s à tolosto dal al cio l "pura nèi"d cla nuete. Ma n'é pasade,purtropo, tance ane ch é rueda la guera. Bruta,longia,cun tance di nose ch n'é pì tornade. Cuan ch al Duce à parlò,duta la dente avea scugnù dì a scoltalo ,su dante l scole e l comun gno che i avea btù na radio ch fadéa sintì pì scose ch parole. L pré lo scoltéa - cun tanta dente intorne - parchié ch calonga e scole è tacade. Bel fin ch al parléa calchdun avéa algo da dì a cal poròn d n pré ma, ruéde in ciò,soralduto doi trèi di pi' vecie, à tacò a dì: "don Alberto, sède n bravo e santo pré, ma n stadèi pi' a contàne chl storie dl Aurora boreale. Tarina da Val avea rsòn. Bisogna crède ncamò a ela pi' ch a chei ch à studiò tanto. Pura néi! Pura nei!
E passade anne e anne e n èi pi' visto né Aurore, né guere.Ma pur ch nel vegna, rinunzio lontiéra a cal ziel che,nanch zi sogne, t lo vède così bél e ciariò d mistero.

POVERI NOI!

Una volta ancora i vecchi hanno avuto ragione.
Qualcuno sa prevedere le disgrazie.

Andavo ancora a scuola e, come tutti i giorni, dopo le quattro, assieme a quelli del Cantòn Luttin, ci si recava o in bosco a raccogliere pigne e giocare cogli aghi d'abete o a bagnarsi sotto lo zampillo della fontana in piazza. Quel giorno ci eravamo fermati al lavatoio. Il sole è tramontato da poco. Le vette, dalle Terze ai Brentoni, dalla Croda di Mezzodì al Tudaio, dalle Marmarole all'Antelao sono ancora tutte indorate. Si stagliano nette in un cielo che va dal blu a tutti i colori dell'arcobaleno man mano che tu alzi gli occhi fin sopra le nuvole sottili che paiono soffici rotoli sfilacciati di cotone. Più sotto , invece, i boschi ed i prati sono sempre più scuri e quasi coperti da nebbioline che non lasciano filtrare quel poco di luce che ancora ci arriva da sopra la nostra Aiarnola. Le mucche sono tornate dal pascolo; si sono fermate davanti ai portoni per aspettare dai padroni una manciata di sale poi, assieme a loro, son rientrate in stalla: gli uomini per mungerle, loro per mangiarsi un po' di fieno e dopo stendersi per dormire. Ma, tornati a casa, tutti hanno qualcosa da dire sulle bestie della stalla, sulle galline, perfino sui gatti che miagolano e saltano per le strade come non mai. Soprattutto al "casélo"mentre pesano e consegnano il latte,uomini e donne non si danno pace e, quelli che vedono nero e chiamano disgrazie giorno e notte, ricordano quelle storie di paura raccontate talvolta dai vecchi su cose che le bestie avevano presentito, e che dopo, purtroppo, si sono avverate. Passano le ore… ma che lunghe! Qualcuno aspetta di sentire il "suono dell'Ave Maria della sera"perché, chi non sa, che pur le campane sentono ciò che può capitare? 1-2-3-4 colpi della Mdàna; 1, 2,..8 della Rocca… Noi, bambini, ci diamo la mano quasi il gesto bastasse per non sentire ciò che, si è capito, tormenta i grandi. E tutti a farsi un segno di croce o a recitare un raequiem per i propri morti. Le altre sere non si vedeva più gente per la strada, ma stasera c'è tutto un gran guazzabuglio.Voci sopra voci, bambini che piangono, gente che si chiama, che corre a guardare sopra Candìde e il Digòn. E'quasi notte, ma il cielo diventa sempre più rosso verso la Pusteria."Lì brucia un paese"dice qualcuno; "No! certamente un bosco" ribatte quell'altro. Giunge uno, di corsa, da sant'Antonio: "Brucia Padola o Monte Croce."- "Corriamo a prepararsi se c'è bisogno di andare in loro aiuto, povera gente" butta là un anziano. Intanto, un rosso vivo, come il fuoco, ha già coperto tutto il cielo fin sopra il campanile. Le voci dei grandi coprono quelle dei piccoli; ragazze, giovani e vecchie con la corona (del rosario) osservano, spiritate, ciò che lassù si ingrandisce sempre di più e raggiunge ormai le Marmarole. "Ma cosa aspetta il prete a far suonare le campane come per la tempesta o il temporale? Lui le sa queste cose, lui sa che qualcosa di brutto sta per arrivare. Perché non esce? C'è tutto sangue, ora, sopra di noi. Questo è un segno del Signore! Ma Lui, che è il prete, venga a benedirci o darci qualcosa che ci salvi". Un po' alla volta, incominciano ad andarsene quelli che s'erano radunati, per meglio osservare, tra la casa Strùiss e casa Luttins. Molti però si trattengono ancora. Sale, da "via Federico", Tarina da Valle, quella che interpreta i sogni,che sente le voci dei morti, che prevede solo il brutto che può capitare a tutti. Tace. Si commuove e scoppia:" Poveri noi, gente, poveri noi! Verrà la guerra. Guardate quanto sangue sopra di noi! Poveri noi, poveri noi "!E' già notte fonda e la gente spaventata che torna verso casa, osserva con un po' di speranza sopra il confine chr ci separa dall'Austria, dov'è Lugàu, dove già i nostri vecchi andavamo a piedi in processione, per pregare la Madonna. Quello era il Santuario più vicino, conosciuto da tutti anche se, per arrivarci, si doveva camminare quasi dieci ore attraverso i sentieri. Oggi non son più quei tempi, ma quando si fa strada la paura del male, delle disgrazie, delle tragedie per noi o le famiglie, si ritorna a fare come facevano i vecchi: un segno di croce, un'ave e un pater e, quando la si vede brutta, anche una corsa in chiesa a trovare il parroco ed ordinare una messa. Così avvenne anche quella notte. Aveva terrorrizzato tutti con quel fuoco che aveva coperto nuvole e stelle e stretto il cuore alla maggior parte. Il parroco infatti ha raccolto offerte per tante messe quantunque continuasse a ripetere a tutti di cosa si fosse trattato: "Nulla da spaventarsi. E' un avvenimento che, dalle nostre parti, capita poche volte, ma nelle zone vicine al Polo, avviene tanto spesso in modo più o meno intenso, ma non spaventa nessuno. E'un fenomeno detto: Aurora Boreale". Un po' alla volta la gente se n'è scordata o, credendo al al prete, s'è tolta dalla testa il "Poveri noi"di quella notte. Ma non erano trascorsi, purtroppo, tanti anni che è giunta la guerra. Brutta, lunga, con tanti dei nostri che non sono più tornati. Quando il Duce ha parlato, tutti han dovuto andare ad ascoltarlo davanti alle scuole ed al municipio dove avevano messo una radio che faceva sentire più scariche che parole. Il prete lo ascoltava - con tanta gente attorno - perché canonica e scuole sono vicine. Mentre parlava c'era già qualcuno che, a quel povero prete, aveva qualcosa da dire, ma giunti al termine, soprattutto due tre tra le più vecchie,hanno incominciato: "Don Alberto! Siete un bravo e santo prete, ma non raccontateci più le storielle dell'Aurola Boreale! Aveva ragione Tarina da Valle. Bisogna creder più a lei che a quelli che hanno Studiato tanto. Poveri noi! Poveri noi!
Sono trascorsi anni ed anni e non ho più visto né Aurore, né guerre. Purchè non tornino, rinuncio però volentieri a quel cielo che, neppure nei sogni, lo vedi così bello e carico di mistero.

Ciantòn Lutìn (u Cantòn) = parte del paese situata attorno all'ex fontana della piazza Doriguzzi Luttin, dedicata al compaesano Anastasio arcidiacono del Cadore.
Casélo = sede della latteria sociale, ove veniva lavorato tutto il latte prodotto dalle mucche del paese.
N ora d nuété = il suono dell'Ave Maria della sera. Era sempre dato dai rintocchi della campana chiamata: Mdàna.

Mdana = la più piccola delle tre grandi campane che compongono il "Concerto"
Rocca = la seconda campana del "Concerto". Benedetta contro le tempeste e le avversità atmosferiche, veniva sempre suonata per allontanare i temporali ed i fulmini. Era tenuta in considerazione al punto che, in Comelico ed in Cadore, la leggenda del suo potere, si materializzava in un laconico dialogo tra le forze del male sbuffanti tra le nubi: " Butta, butta " (butta grandine e fulmini)!!! "No' posso buttar perché la Rocca de Danta baia" (Come se si trattasse di un cane rabbioso)
Lugau = paesino della Val del Gail, subito oltre il confine italo-austriaco, raggiungibile a piedi, dalla Val Visdende o salendo dal bivio per Cappella Tamai fin dietro il Longerin. Il Santuario, dedicato alla Madonna, è ancor oggi, méta di annuali pellegrinaggi a piedi, dal Comelico e da Sappada. Era il più vicino santuario mariano per i nostri vecchi, lontanissimi (causa le strade dell'epoca) da quelli più famosi del Veneto e d'Italia.

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CHE FIGURA APED ENZO TORTORA!

Arone zi prime ane zinquanta. L paese s sintìa ncamò medo isolò dal mondo parchié ch, gnud fora d na guera ch avéa lasò morte e po' tanta disocupaziòn, t cetéa pl strade solo canaie, vece e chelch ota n camio ch gnéa a tol taie u tondins. I omi era pr i bosche a rincuré legne. Z chelch bar e zl cede d chi ch podéa n tin da pì’ s avéa scomnzò a scoltà la radio e greign e pizi s'unìa pr pasà n'ora. Rua in Comun la notizia ch la RAI, pasando pr ogni Comun dla provimzia d Blun, intndéa fei n programa ch prvdéa la registrazion, in strada, d storie dal paese, ciante, bale, musiche e poesie eseguide propio "dal vivo" com ch s dis incuei. I m'invita in Comun e i m dis ch al programa RAI prvede ch al giro dla provinzia parta propio da Danta e ch sàa pueco tenpo pr parciase. Ciapo Meto, Elio, Tonuto, Mario, Sandro "la Sanba", Poli e n puece d chei ch ciantea z gedia e btòn insieme do canzonute .d n'ota, a do os. Mancé però algo d propio nos e tra l tante ch podé interesane, torna fora, pian pian, chela che, cun bason, mandolins e chitare - sonade da chei dla Gheza - t la sintìa speso pr strada: "Danta, tu sei la perla del Cadore! Danta, le tue fanciulle sembràn un fiore"… Ma chi l'avea scrita? E cli etre parole? L'inpegno a Meto d cetàl fora, cun dute l strofe e insignàle ai doign aped "Campane", così adata al nos paese, cun duce chi minadors ch lorea in Belgio. Parlo apéd al pre, ch conserva l libro dal Rossin e s btòn d'acordo su cuanto in longo parlà, su chié augurase pr sto nos poeta anch da parte dla Rai. Ié m sei tignù da contà la storia dla Perla del Cadore, na Danta rifata nueva da nanche sesant'ane e pr chesto forse vista propio rara come na perla. Penso ch colgando sto miracol d'al bicé du dl cede d len pr dà posto a chele in muro m gnirà fazile parlà dal Comun e dl Regole. Pasa i dis e rua cla sèra. Com da acorde, cuan ch la machina dla Rai sbuca da"Davoi al Col", parte l Conzerto". L trei ciampane fa festa; dente z pieza e du pr Vila, bate l man al so pasà. Smonta trei omi cun microfone e palete d fero e dai altoparlante tacade sula machina vien fora na os liegra e potente ch saluda:"Danta ci porge il benvenuto con questo squillar di campane che ci giunge dalla sua stupenda torre merlata. Grazie, dantini tutti,! A voi il cordial saluto di Enzo Tortora". Vien fora dla machina st'autro bel doign, soridente, ch strende man a duce. S presenta e invita a dà l via al programa. N coro po' duto va inant polito.Don Alberto rcorda la vita d Rossin, liede e comenta verse dal poerma ch tocia la vita zi bosche, l gnì su dal soroio, l so dì du, l neve, l tampeste, l bufere ch è senpro chel d'ignere e chel d'incuei. Dopo tocia a mi e sero l discorso augurandome che l'incontro cun Tortora posa signè l'inizio d na riscoperta dal Rossin: se ades son Comun é in grazia soa. Allora, ch tra Comun e Regola e la Rai - s la vué ese anche di paesute- i faza algo pr Li. N algo ch lo rcorde e ch faza cognose anch l'opra d sto nos boscaiol-poeta. Taca l fol e n tin s cianta, n tin s bala, ma ala vecia ch fa pì’ colpo.A n segno d Tortora s dsèda l ciampane e Meto intona: "Muore lontano il sole sui campi in fiore" Cianta i doign, ciantà la pieza e canta anch Tortora. Cuan ch s rua però al'ultma strofa,n disastro.Pr chel ch dové ese n dì d festa, s'avea deciso da n cianta l'ultma strofa cul trist parole ch rcordéa "Un bimbo che piange e una mmma che muore"sotando al ritornel "Campane che suonate ogni sera".Ma né Tortora, né la dente z pieza savé dal nos acordo; così chi dé inante cul ritornel chi cu l'ultma strofa. Iinsoma a fnù ch, n tin a l'ota, duce a tadù. Dala machina ch partìa, s siente la os d Tortora:"Ciao,Danta"! e lolo dopo li ch intona: "Campane che suonate ogni sera".Fin ch al va verso Vilapizla la so os, n tin a l'ota, s ridus a n sofio. Prfin l cianpane par ch l s vrgogne e l stente a fermase pr podei cuerde l fracaso dla dente ch n fnia pì’ da ride…
Ma che figura!

CHE FIGURA NEI CONFRONTI DI ENZO TORTORA!

Ervamo nei primi anni cinquanta, Il paese si sentiva ancora quasi isolato dal mondo perché, usciti da una guerra che aveva lasciato morti e poi tanta disoccupazione, trovavi per le strade bambini, vecchi e qualche volta un camion che ci veniva per portare a valle "tondins" e tronchi d'albero. Gli uomini erano per i boschi a procurarsi legna. In qualche bar e nelle case di chi aveva un po' più di disponibilità si era cominciato ad ascoltare la radio e grandi e piccoli s'univano per trascorrere un'ora. Giunte notizia, in Comune, che la RAI, passando per ciascun comune della provincia di Belluno, aveva programmato una registrazione, in strada, di storia del paese, canti, balli, musiche e poesie eseguiti proprio "dal vivo" come oggi s'usa dire. Vengo invitato in municipio e mi informano che il programma Rai prevede che il giro della provincia parta proprio da Danta e che il tempo per prepararsi è ridotto. Scelgo Metto, Elio, Tonuto, Mario, Sandro "la Sanba"; Poli ed un pochi dei cantori di chiesa e mettiamo assieme alcune canzonette d'una volta, a due voci.
Ci mancava però qualcosa di proprio nostro e tra le tante che ci potevano interessare, se ne esce, pian piano, quella che con violoncello, mandolini e chitarre - suonati dal gruppo della Gheza - la sentivi spesso per strada: "Danta, tu sei la perla del Cadore! Danta, le tue fanciulle sembrano un fiore"…Ma chi l'aveva scritta ? E poi quelle altre parole ? L'impegno a Metto di ricercarle, con tutte le strofe e di insegnarle poi ai giovani assieme a "Campane ", così adatta al nostro paese con tutti quei minatori che lavoravano in Belgio. Conferisco con il parroco che conserva il libro del Rossin e concordiamo su quanto dovesse durare l'intervento, su cosa augurarsi per questo nostro poeta anche da parte della Rai. Io mi riservo di raccontare la storia della Perla del Cadore, una Danta rifatta nuova da neppur 60 anni e per questo forse vista proprio rara come una perla. Penso che collegando questo miracolo dell'abbattimento delle case di legno per dar posto a quelle in muro mi verrà facile parlare del Comune e delle Regole. Passano i giorni ed arriva quella sera. Come da accordi, quando la vettura della Rai sbuca da "Dietro il Colle", parte il Concerto.
Le tre campane fan festa; gente nella piazza e lungo via Roma, batte le mani al suo passaggio. Scendono tre uomini con microfoni e paletti di ferro e dagli altoparlanti poeti sulla macchina esce una voce allegra e potente che saluta: "Danta ci porge il benvenuto con questo squillar di campane che ci giunge dalla sua stupenda torre merlata. Grazie, dantini tutti! A voi il cordiale saluto di Enzo Tortora". Scende dalla macchina questo altro bel giovane, sorridente, che stringe la mano a tutti. Si presenta ed invita a dar inizio al programma. Un coro e poi tutto prosegue per il meglio. Don Alberto ricorda la vita del Rossin, legge e commenta versi del poema che descrivono la vita nei boschi, il sorgere del sole, il suo tramontare, la neve, le tempeste, le bufere che son sempre quelle di ieri e quelle di oggi. Poi è il mio turno e chiudo il discorso augurandomi che l'incontro con Tortora possa segnare l'inizio di una riscoperta del poeta Rossin: se ora siamo Comune indipendente è proprio per merito suo.
Allora, che tra amministrazione comunale e Regole e la Rai - se questa vuol essere anche dei paesetti - faccian qualcosa per lui.
Un qualcosa che lo ricordi e faccia conoscere l'opera di questo nostro boscaiolo-poeta. Suona la fisarmonica ed un po' si canta, un po' si balla, ma alla vecchia perché fa più colpo. Ad un segno di Tortora si svegliano le campane Meto intona: "Muore lontano il sole sui campi in fiore". Cantano i giovani, canta la piazza e canta anche Tortora. Quando si giunge però alla ultima strofa, un disastro. Per quello che doveva essere un giorno di festa, si aveva deciso di non cantare l'ultima strofa con le tristi parole che ricordavano "Un bimbo che piange ed una mamma che muore" saltando al ritornello "Campane che suonate ogni sera". Ma né Tortora, né la gente in piazza sapeva del nostro accordo; così chi cantava avanti col ritornello, chi con l'ultima strofa. Insomma è finito che, un po' alla volta, han taciuto tutti. Dalla macchina che partiva, si sente la voce di Tortora: "Ciao, Danta"! e subito dopo lui che intona:"Campane che suonate ogni sera". Mentre se ne va verso Villapiccola la sua voce, un po' alla volta, si riduce ad un soffio. Perfino le campane pare si vergognino e stentino a fermarsi per poter coprire il fracasso della gente che non finiva più di ridere… Ma che figura!


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L CAPITEL DLA MADONA D FATIMA

Quan ch t rùé a Danta gnèndo su da Sa Stèfi, lolo dopo l prim cède, al bivio cula via XXIV mai, t céte n capitél: è chèl dla Madona d Fatima, fato su tra l 1949 e l 1950. . N acòrdo tra l sindico d'inclòta, Felice d Bépùto e l pré don Alberto Chiarelli, avé fato in muédo che, dsfato l capitelùto ch'era tra la céda d Sualdìn Bozo e chèla d Mèno Mattèa, gnès fato su n'autro du in ciò dal paese, tra l tabié di Preztòrs e chèl di Nodàre. I uniche ch in ch l'ota fadé su céde a Danta èra i cugìns muradòrs Nani dal Baul e Santùto (Doriguzzi Sartor Giovanni e Sante). A chèse è sto do l'incarico d fèi sti laòre. Conprà na statua dla Madona costé sode e sode era puéce. Così, don Alberto ha ciamò Tonuto Tamon-che a vintizinch ane s la giavé bèn com pitòr- i a do n santùto dla Madona d Fatima e na tèla pr fèi la pala da bète inze zal capitél-. L'an dopo, al dì dal Corpus Domini, don Alberto a bndù l nuévo capitèl btù ladù,inant dl prim céde, pr dà l "benvenuto" a chi ch ruéa a Danta. Adés t céte cède nuéve achk inant dal capitél, ma chèsto résta sempro ilò pr dà n saludo sia ch t rué, sia ch t parta. La cura dal capitèl è stad fin ala so morte in man d Giovanùta Doriguzzi Bozzo, mare d Tonùto, dopo è subntràda Vilma Doriguzzi Zordanin. la, fèmna d Bèpi Zoldo e adès, chi ch cura pulizia e ordi dinze e fora dal capitél, è Graziela Menia Tamon, fia d Svaldùto D chèi ch è stad parte d sta opéra è rstò ncamò solo Tonùto ch a pasò a Bepi d Rìstide st notizie.Chi puéce ote ch puéi frmàme a saludé la " so " Madona pènso a li e a quanc di nòse ch avrà podù esse algo d inportante si avès avù la posibilitè d studié e vive magaàre in zità, cun poste d laòro invidiède e paghe da siore.
Ma, pur forse da omi inportante, se sarài sntìde l'istèso contente e serène così come chi è stade vivendo tra i nos bosche, i nos pras, sot chal nos unico bél cianpanìn ?
LA CAPPELLETTA DELLA MADONNA DI FATIMA

Quando giungi a Danta, salendo da S.Stefano, subito dopo le prime case,al bivio con via XXIV maggio, trovi una cappelletta: è quella della Madonna di Fatima, costruita tra il 1949 ed il 1950..
Un accordo tra il sindaco dell'epoca, Felice di Bepùto ed il parroco don Alberto Chiarelli,aveva fatto in modo che, demolita la cappellettina situata tra la casa di Osvaldin Bozzo e quella di Mèno Mattea, ne venisse edificata un'altra in fondo al paese, tra i fienili dei Precettor e quello dei Nodaro.
Gli unici che allora costruivano case a Danta erano i cugini muratori Nani dal Baùl e Santuto (Giovanni e Sante Doriguzzi Sartor). A questi è stato dato l'incarico di effettuare tali lavori. Comperare una statua della Madonna costava soldi e soldi ce n'eran pochi. Così don Alberto ha chiamato Tonuto Tamon - che a venticinque anni se la cavava bene come pittore - gli ha consegnato un'immaginetta della Madonna di Fatima ed una tela che sarebbe poi divenuta la pala da porvi all'interno della cappelletta. L'anno dopo, nel giorno del Corpus Domini, don Alberto ha benedetto la nuova cappelletta, messa laggiù per dare il "benvenuto" a chi giungeva a Danta. Adesso ci trovi nuove case anche prima della cappelletta, ma questa resta sempre lì per darti un saluto sia che tu arrivi, sia che tu parta.
La cura della cappelletta è rimasta fino alla sua morte in mano di Giovannuta Doriguzzi Bozzo, madre di Tonuto; dopo è subentrata Vilma Doriguzzi Zordanin, moglie di Beppi Zoldo ed ora, chi cura pulizia ed ordine dentro e fuori della cappelletta è Graziella Menia Tamon, figlia di Osvalduto.
Di quanti sono stati artefici di quest'opera, è rimasto ancora solo Tonuto che ha passato a Beppi di Aristide queste notizie. Quelle poche volte che riesco a fermarmi per salutare la "sua" Madonna, penso a lui ed a quanti dei nostri che avrebbero potuto diventare qualcosa di importante se fosse stata data loro la possibilità di studiare e vivere magari in città, con posti di lavoro invidiabili e paghe da signori.
Ma, pur forse da uomini importanti, si sarebbero sentiti lo stesso contenti e sereni così come sono stati vivendo tra i nostri boschi, i nostri prati, sotto quel nostro unico bel campanile?

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L LAVATOIO

Un di lueghe gno che femne e todele s cetéa a parlase,confidase e fors'anch pr maligné fin che l s lavéa lanzues e robe pesante da laoro, era oltre ch la fontana, l lavatoio. Danta avé doi: un sot pieza granda, cl'autro sot la ceda de Nanuto Tamon e davdin chela d Caio. E propio d chesto,ch'era l regno di canaie dal mi grupo, vòi ades di' algo. Done ilò anche s piovéa. Stadon a sosta sot cal gran bel cuerto, ma dopo n tin s btone a borbiné e s fnìa cul tiras aga tanto da biandase polito. Ruone dopo a ced e fadone in muedo ch l mare l s'inacorda ch n'era stada la pioa a ridusne così. La lavatoio era na gran bela fontana a do vasche,cu l'aga ch corea senpro e inpìa prima una e dopo, traverso n'aprtura, la sconda. L'una e l'autra avéa n tubo auto che, infilò zal bus colgò a chel d scarico, prmeté da svuétà l vasche pr ntàle. Chesta almanco avrà dovù ese la so funzion, ma pr nei canaie era l'ocasion d n bel duego,da fei senpro d scònto dai greign: ozon su sto tubo e lo molone inze z vasca così l'aga scomnzé a di' fora pal scarico e ruéa z cla vascuta d zimemto fata fei da Pscadò. Da ilò partìa n tubuto ch rué fin d fronte al so tabié , Ilò li avé btu do brente gno ch se bicéa cl'aga ch al doréa pr borà l so vace.Sto tubizin però portéa puecia aga e e la pi' gran parte schizé fora e coré du pla straduta d Vigranda - ch'era la curta pr di' sèia zal nos tabié, sèia ch a Cianpdel - e mangé fora tera, giara, crode e portéa du duto fin z l'orto e sul'erba dal pra. Duce sa chié ch vué di' na croda contro la lama cuan ch s va a sié. Pr chesto s dovè senpro scanpà pena ch s'avé l'inprsion ch posa rué calchdun u, pedo ncamò,Meno. Li t tiré davoi dalduto pr feite spavnto, ma s'al t ciapéa pi' d na sbraitava n'al t fadéa. A mi po' l me didea senpro che,roviné l truei podé fei tomà la mama cuan che, pr cla straduta, la dé ilò sote zal nos tabié. Così, chelch ota, n'aveo coraso d betme aped chei ch me didea da di' insieme a molà l'aga dal lavatoio. E ades rcordo però cun nostalgia li ore che on pasò ilò nei riedute; penso anche a chele ch nare e fie à pasò intorne a li a lavà, strizé e ciacolà. Né cheste, né chele n podarà pi' ese godude da chei d'incuei: l lavatoio è sparù, l tabié d Meno è gnu na vileta, la ceda d Caio, ingrandida pi' ote e trasformada inante zl bel albergo, s sta ades ristriturando e gnirà fora tance apartamente. Anch al nos tabié s'à trasformò z na sinpatica vileta eVigranda, la straduta, n serve pi' a nsuign e forse i canaie n sa nanche pi' ch la esistea. Forse luere n'à nanche mai sintù sto so nome. Cuante robe dla Danta ch fadé parte dla nostra età pi' liegra e spnsierata è ades solo n rcordo!
IL LAVATOIO

Uno dei luoghi dove donne e giovani si trovavano per parlare, confidarsi e forse anche per malignare mentre lavavano lenzuola ed abiti pesanti da lavoro era, oltre che la fontana, il lavatoio. Danta ne aveva due: uno sotto piazza grande e l'altro sotto la casa di Giovanni Tamon e presso quella di Luigi Caio. E proprio di questo, che era il regno dei ragazzi del mio gruppo, voglio ora dir qualcosa. Ci si andava lì anche se pioveva. Ci si metteva al riparo sotto quel grande bel tetto, ma dopo un po' ci si metteva a giocherellare e si finiva col gettarsi acqua tanto da bagnarsi per bene. Si ritornava poi a casa e si faceva in modo che le madri non se ne accorgessero che non era stata la pioggia a ridurci così. Il lavatoio era una grande, bella fontana con due vasche, e dell'acqua che scorreva riempiendone sempre prima una e dopo, attraverso un'apertura, la seconda. L'una e l'altra avevano un tubo alto che, infilato nel buco collegato a quello dello scarico, permetteva di svuotar le vasche per pulirle. Questa almeno avrebbe dovuto essere la sua funzione, ma per noi bambini era l'occasione di un bel gioco, da farsi sempre di nascosto dai grandi: sollevavamo questo tubo e lo gettavamo in vasca così l'acqua iniziava ad uscire atttraverso lo scarico e giungeva in quella vaschetta di cemento fatta fare da Precettor. Da lì partiva un piccolo tubo che giungeva fino di fronte al suo fienile. Lì lui ci aveva messo due mezze botti dove si riversava quella acqua che lui adoperava per abbeverare le sue mucche. Questo tubicino però portava poca acqua e la maggior parte schizzava fuori e sorreva veloce lungo il sentiero di Vigranda - la scorciatoia sia per scendere al nostro fienile, sia verso Campitello - ed asportava terra, ghiaia, sassi e riversava tutto fin nell'orto e sull'erba del prato. Tutti sanno che cosa significhi un sasso contro la lama quando si va a falciare. Per questo bisognava sempre fuggire quando s'aveva l'impressione che potesse giungere qualcuno o, peggio ancora, Domenico. Lui ti gettava contro di tutto al fine di spaventarti, ma qualora t'avesse anche preso, più una "sbraitata" non ti faceva. A me poi diceva sempre che, rovinare il sentiero poteva provocare la caduta di mia mamma quando, per quella stradetta, doveva scendere lì sotto nel nostro fienile. Così, qualche volta, non avevo il coraggio di unirmi a quelli che mi invitavano ad andar con loro ad aprire l'acqua del lavatoio. Ed ora ricordo però con nostalgia le ore che noi ragazzini abbiamo lì trascorso e penso anche quelle che madri e figlie hanno trascorso attorno ad esso per lavare, e chiaccherare. Né queste, né quelle potranno più essere godute da quelli di oggi: il lavatoio è sparito, il fienile di Domenico è diventato una villetta, la casa di Caio, ingrandita più volte e trasformata prima in un bell'albergo, si sta ora ristrutturando e se ne otterranno tanti appartamenti. Anche il nostro fienile si è trasformato in una simpatica villetta e Vigranda, la stradetta, non serve più per nessuno e forse i bambini non san più ch'essa esisteva. Loro forse non l'hanno neppure mai sentito questo nome. Quante cose della Danta che facevan parte della nostra età più allegra e spensierata sono ora solo un ricordo!

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DON A FEI SUBIOTE!

Cul rué dla bona stason, inant ch viena su l'erba, duc i pras era nose. T dé a radice, t dé a canpanote, t dé a ciapà i prim varauome ch s bté a soroio su chelch croda, ma soralduto t dé du pr la Trduda a tol bachete dl nodéle che, cu l'amò ch giré bel tra l len e la scorza d dut l piante, t lasé.fei dopo subiote d'ogni tipo. D solto, calcdun di pi' greign avé la britola adata pr taié la steca dla longèza ch t volèa. Po' gnea l laoro pi' dfizile: bate pian pian sto len, duto d'intorne e in longo fin ch n t sintìa ch la scorza s stachea dal len. A sto punto t dové incavà n buduto, quas in zima al stec gno ch dopo t'avè da bet la bocia pr sofié inze e sintì a subié.- T tiré fora l len, cun tanta atnzion; t staché via n boconuto d doi schei, t lo intaiea pr longo in muedo da feilo piato da na parte . Tirando via l len t'era rsto n tubo cu cal bus cuas in zm,a. Ilò t frachéa inze l boconuto d len apiatù e t scomenze a sofié inze. L subioto era fato! I pi' brave, fracando su e du l len rstò, t fadé sintì sone, dai pi' base ai pi' aute, com l sirene dlja polizia. L bel è ch, ruede a ceda, duce ne didé da inpiantala parchie ch a luere fadé fastidio; ladù inveze, pi' sofione, pi' duce subiea, pi' n parì che intorne a nei s la godès anch i ozì ch doléa tra nei, l bruse e i pozués.Ades ch scrivo e forse parchié ch sei così lontan da chi tenpe e dalla Trduda, m vien n dubio: forse cal nos subié dadé fastide anch ai ozì e i n'invité a dolà via anch nei ? Ma no! Canaie e ozì vede senpro duto bel. Avei na pieza pr doié è pr li uni come avei aria e librtà d dolà pr chietre.

DON A FEI SUBIOTE!

Col giungere della buona stagione, prima che cresca l'erba, tutti i prati erano nostri. Andavi a raccogliere il tarassaco, cercavi le genzianella prima lucertola che si metteva al sole su qualche sasso, ma soprattutto te ne andavi per la Trduda a raccoglier rami di nocciolo che, con la linfa che circolava già tra legno e corteccia di tutte le piante, ti permetteva dopo di far fischietti d'ogni tipo. Di solito, qualcuno dei più grandi aveva il temperino adatto per tagliate lo stecco della lunghezza che più ti piaceva. Dopo veniva il lavoro più difficile: battere pian piano questo legnetto, tutto attorno ed a lungo in modo che la corteccia si staccasse dal legno. A questo punto dovevi incavare una piccola apertura in cima allo stesso dove dopo avresti dovuto mettere la bocca per soffiarci dentro e sentire a fischiare. Dovevi poi estrarre il legno, con tanta attenzione, ne ritagliavi un pezzetto di due centimetri, te lo intagliavi in lunghezza in modo da renderlo piatto da una parte. Estraendo il legno ti era rimasto un tubo con quel buco quasi in cima. Lì ci forzavi dentro il pezzettino di legno che avevi appiattito ed incominciavi a soffiarci dentro. Il fischietto era fatto. I più grandi, spingendo su e giù il pezzo di legno rimasto, ti facevano sentire dei suoni, dai più gravi ai più acuti, come le sirene della polizia. Il bello è che, giunti a casa, tutti ci dicevano di piantarla perché questi fischi davano loro fastidio; laggiù invece, più si soffiava, più tutti fichiavano, più attorno a noi pareva che si rallegrassero anche gli uccelli che volavano tra noi, i cespugli e gli abeti. Ora che scrivo e forse perché son così lontano da quei tempi e dalla Trduda, mi sorge un dubbio: forse quel nostro fiischiare dava fastidio anche agli uccelli e ci invitavano a volar via anche noi? Ma no! Bambini ed uccelli vedono sempre tutto bello. Avere una piazza per giocare è per gli uni come avere aria e libertà di volare per gli altri
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L "BALUTE D MARMO" D PRA DA BARCO

In chi ane, zi nos paese, èra tanta miseria. N'èra laòro pr i omi. I pì,com minadors, déa zl miniére u a fèi dighe e galarìe pl centrals eletriche. Chei ch n'avéa mstiér, podè fèi solo i manuai e scugné prié prfin al pré ch'al scriva a chèlch inpresa pr ch al li racomandès duce e avèi chelch mèis d laoro. Sti laore gné fate duce su l montagne gnò ch èra senpro frèido e nève.Pr chèsto , i cantiérs s vardéa in aprl u mai e s saréa bel cul prime maiéde d stembre. Ma bisogné vive anche zi mèis d l'otòno e dl' inverno! Algo gné fora dal dornade sgonbro neve- ch Comun u Regola fadé fèi -a turno- a duce i capefamèia. Cul stèso sistema, gné fate anche i laore pr taié l piante, fèile su, portale a strada dopo avèile magare fate rué du cula " lissa". Così gné fora calch franco. Ma solo "l libreto"garantìa n tin d pan al dì u la farina pr al mués e la polenta che tante famèie conzéa solo cu "l'aria d la porta". N tin mèio stadéa i bacane . Luere, tra vace, fede , porzì e pite manadéa calch sòdo e, cun tin d bcarìa, podé vèdse na taula da siore no solo da Nadà e pr l féste pì grande. E l fèmne? Avéa solo da pnsà a la céda e ai vece ch era là, ai canaie , a senpro pontié ciauze, ciamède, garmài e barghèsse. Ma proprio a èle spitè da fèi n miracol, ogni dì: inpì, in calch muédo, i piate e l scodiéle ch spitéa su la taula. Dueghe pr i pizi? Pupe d straze pl riéde e…….la strada pr i canaiùte.
Na dì, rua un cun balute d modon e do bele,ch ludìa com l lagrme zi ueie, ma pdéa....era d'azal.Duce a vardà,duce a domandà da tolsle z man pr sintìle e sopdàale.Chi n'avrà volù portasle a céda? Ma in canbio chié domandélo? Tante, ma tante balute d modòn!Intrà d nèi era anch Sualduto,dal 24,un di pì vece dal Ciantòn: 'era come n capo. "Tolsto anche se li è d marmo"?a dito a cal forésto e chesto,duto liegro, a sbarò :"Vinte d marmo, una d fero" N parì veiro a Sualduto ch avea bel duto z al ciò e n'a fat dì lolo a céda, duce in zerca d dédài vece, chei ch, s n t stadéa atento.t taiéa anch i dèide. Bisogné giré e giré l dédal e féi gnì tondo l bocòn d marmo.In medora, duce z strada e ,come liore, pr al truei,cun bude e radis, erbe e sbulìe, son ruéde in Pra da Barco gno ch s didéa ch s vdèa na béla vèna d marmo bianco. Nestore, ch'era duc i dis du pr chì pras a tende visciade, l'a cetàda lolo. On tacò, cul crode,i bachete e i deide,a tiré fora i boconute d marmo e bèti z fonda pr avèili dopo anche a céda. Avé scomnzò i pì greign. Ié, ch ero tra i pizi dal 27, avéo cètò solo doi, trei bocoign, ma,qan ch al dédal a scomnzo a giré com ch vdéo a fèi i pì vece,ei capù ch chei m avrà bastò e vanzò a longo. Spreme l dédàl cu la parte ch taiéa su sto duro dla croda era na fadìa da mate! Gnéa bel nuéte e bisogné tornà a céda. Al tiré di conte, n'era da stà liegre: solo chelch baluta, nanch bèn tonda e tante ch impegnéa ncamò ore d laoro. Rstéa da decìdse quan e com cetase pr unì dute l balute parcéde e fèi l scanbio cun cal forésto. S son lassàde cu l'inpègno d cétase da nuévo sabo, vèrso sèra, anch pr doiè cu ste nuéve balùte. S son incontrade, cui borsitùte méd uéte, ma duce avé fato n bél laoro e. da boign amici, on btù insieme chèl ch avòne parciò. E on doiò, grèign e pizi,, prima liègre pr sta nostra scopèrta e dopo sempre pì imbronzade. Pì passéa l tempo, pì mancéa bale Nsuign robéa . E alora?" "Marmo d crèda!"- è sbotò Sualduto-"N vdèdè ch cu t l toce apèna , l s dsfà! N s fa pì niente ! Apèna ch t le toce l va in solòn ! Scondònse, in caso ch rue cal forésto. E, in cal dì ch avone da cetàse, duce i portoign saràde e nèi a muliete du pr la Trduda". Questiòn d doi minute e n s'a pì visto n riedo in duto l Ciantòn. Duce era tornade a ceda e avéa bel sconto l dédàl ch l mare n li vèda. Era fnìda l'aventura d Pra da Barco. Ncamò inquéi, ié n sèi s calchduna d'èle s'a taiò cun chi dédai che , sliséde su cal marmo, taiéa come i fer da barba.

LE "PALLINE DI MARMO" di PRA DA BARCO

In quegli anni, nei nostri paesi, c'era vera miseria. Mancava lavoro per gli uomini. I più, come minatori, andavan in miniera o a costruire dighe e gallerie per centrali elettriche; quelli non specializzati potevan fare solo i manovali e dovevano pregare perfino il parroco chè scrivesse a qualche impresa per raccomandarli ed ottenere loro qualche mese di lavoro. Lavori che venivan fatti tutti sulle montagne ove c'era sempre freddo e neve. Per questo i cantieri s'aprivano in aprile o maggio e si chiudevano già con le prime nevicate di settembre. Bisognava però vivere anche nei mesi dell'autunno e dell'inverno. Una risorsa s'otteneva colle giornate dette di -sgombro neve - che Comune o Regola ordinavan - a turno - a tutti i capifamiglia e con lo stesso sistema, venivan pure ripartiti i lavori per taglio e sezionatura delle piante, il loro trasporto a strada dopo averle magari fatte scendere a valle con la "lissa". Si ragranellava così qualche lira, ma solo "il libretto"garantiva un po' di pane al giorno, la farina per il "mues" e la polenta o il riso per la minestra che più famiglie condivan solo "con l'aria della porta". Un po' meglio stavan "i bacane" che, tra mucche, pecore, maiali, galline potevan disporre di qualche soldo e, confezionati i salumi, potevano vedersi una tavola da signori non solo a Natale e per le feste più grandi. E le donne? Dovevan solo pensare alla casa ed ai vecchi che lì ci stavan, a bambini, camicie, calze, grembiuli e calzoni da rammendare. Ma spettava proprio a loro, ogni dì, compier un miracolo: riempire, in qualche modo, piatti e scodelle posti sulla tavola. Giochi per i piccoli? Bambole di stracci per le bambine e…la strada per i ragazzini.
Un giorno, arriva un tale, con palline di mattone e due, belle, che luccicavan come le lacrime negli occhi, ma pesavano….. Erano d'acciaio. Tutti a guardarle, a chieder di tenerle in mano e soppesarle. Chi non le avrebbe voluto portare a casa? Ma che chiedeva in cambio? Tante, ma tante palline di mattone. Fra noi c'è pure Svalduto, del 24, tra i più vecchi del Canton, quasi un capo. "Tu ce le prendi anche se son di marmo"? Chiese a quel forestiero che, tutto felice, sparò deciso: "Venti di marmo, una di ferro"! Non parve vero a Svalduto che aveva già ben chiare le idee in testa e ci spedì subito a casa, tutti in cerca di vecchi ditali, quelli che tagliavano perfin le dita se non stavi attento. In mezz'ora, tutti in strada e poi, come lepri, lungo il sentiero, su buche, radici, ortiche ed erbe ci siam trovati in Pra da Barco dove, si diceva, si vedeva una bella vena di marmo bianco striato. Nestore, che se ne andava tutti i giorni su quei prati a tendere il vischio, la trovò subito. S'iniziò con sassi, rametti e dita ad estrarre pezzettini di marmo e riporli in tasca per lavorarli anche in casa. Iniziarono i più grandi; io, tra i piccoli del 27, avevo raccolto solo due, tre pezzi, ma quando iniziai a girare il ditale - come vedevo farlo dai vecchi - mi resi conto che mi sarebbero bastati a lungo. Spingere la parte tagliente del ditale contro il duro del sasso era una fatica da matti! Scendeva già la notte e si doveva tornare a casa. A conti fatti, quanto prodotto non ci dava certo allegria: qualche pallina, neppure ben rotonda e, per molte, ancora tante ore di lavoro. Rimaneva da decidere quando e come trovarsi per unir tutte quelle già pronte e farne scambio col forestiero.
Ci siamo lasciati con l'impegno di ritrovarci nuovamente il sabato, verso sera, anche per giocare con queste nuove palline. Ci siamo incontrati con il
sacchetto mezzo vuoto, ma tutti avevan fatto un bel lavoro, da buoni amici, abbiamo messo assieme quanto avevamo preparato. Abbiamo giocato, grandi e piccoli, prima allegri per questa nostra scoperta; dopo sempre più incupiti. Più passava il tempo, più le
palline venivan a mancare. Nessuno rubava. Ed allora? "Marmo di creta"! Sbottò Svualduto. "Ma non vedete che appena le toccate si dìsfano! Non si fa
più nulla! Appena le tocchi si riducono in sabbia! Nascondiamoci, nel caso arrivasse quel forestiero. E, nel giorno in cui ci si doveva incontrare, tutti i
portoni chiusi e noi, ad arrotolarci giù, tra gli arbusti della Trduda. Questione di due minuti e non s'è più visto un ragazzo in tutto "l Ciantòn". Tutti se
ne erano tornati a casa ed avevano già nascosto il ditale affinché le loro madri non se ne avvedessero. Era finita l'avventura di Pra da Barco. Ancor oggi, io non so se qualcuna di loro si sia tagliata con quei ditali che, affilati su quel marmo, tagliavano come ferri da barba.


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L CAPITEL D SANT ANTONE IN PIEDO

Duce i capitì ch se vède pl strade, zi bosche, zi pras, à na storia : u n voto, u na grazia ch é ruéda cu rosarie e oraziòn, u n rcordo pr calchdun c n'a lasade Chèl d Piédo à anch li la sòa,ma incuéi chi la sa? Bisogna tornà in davoi a chi tenpe chi alpins,i soldade d casù, portéa canoign,munizion, l mangé, duto cu i mui. A chèse i cape tignìa pì ch al conducente ch era l responsabile in duto e pr duto dal mul. Gnòn al fato.Fora in Orobze s'era acanpada na conpagnìa d'alpins e,tra n puéce ch era da Danta,s cetéa anch Iaco, l Pangòn. Come ch senpro capité cuan ch'un s sintìa davdin céda, à domandò anch li prméso pr di a cétà i suéi. N s'à mai savù l motivo, ma li n l'à avù..Vién scuro e, cun algo al sntinéle e al piantòn, li scanpa cul so mul pal truéi pi scònto: chèl ch da santa Catarina dè su pr Danta. Duto è du ben fin ch n l'è ruò zl Ruéibe, gno ch s s spavénta ncamò incuéi a pasàle parchié ch al tarèn céde e frana anch cuan ch n piove.Ma in cla nuéte bicé du da fèi paura. L fral, cui viére sporce e biandàde, fa vède n bus, d'inproviso.. N'èra da Pangoign tornà in davòi!Tacò ala coda dla bestia, urla al mul d sotà otra l bus. Chel ubdis e sauta d là, ma l so peso smuéve autra tèra e taca a sbrisé du e rodlase du,du,du cun rumòr d crode e fraise rote. Parte anch al fral cuan ch al Pangon s ciapa zn ramùto pr iutase a tornà su. N s vède pì' gnente e, du in fonde, è solo n giò ingrosò com mai.
Ladù, nsùn sègno d vita. Intorne solo rumòrs dal sguèrgno e de n bruto vento ch s'auza e fis-cia senpro pì forte, tra faghère, pins e pozués. Zal scuro dla nuéte, Iaco inveze scomènza a vède ciaro: l cétase tra puéco, ladù al canpo, cul so comandante, l so capo e sintise di': "T spiéta la prdòn d Gaéta"! Sudòrs frèide e na gran trmadòn pédo d na febre da ciavàl fin ch l'è ruò dal picheto d guardia e ch l'à podù fèighe capì ch algo era du storto e che anch luére era d medo. I pì' dréte, i pì' sveie, a scòntse lolo sot una dl tende, a scolta Iaco ch bìcia là l'idéa nasuda intanto ch, pr lvàse al pì presto la paura ciapàda, l s moléa du pr l'èrto truéi: Fèi voto a sant'Antone d tiraigh su n bél capitelùto cu na so statua s li salvéa da chèl chi s spiétéa. Ma bisognéa iuté anch l santo cul contà na bala: "Sède d guardia; sintìde rumors ilò dai mui. Dadèd l'alarme: " Ch cora fora duce" ! Dopo, manciarà n mul e solo i ladre savarà gno ch l'è du a fn". Com ch sèia dude proprio l robe n s'à savù mai, ma i soldade n'é mai stad boign d cétà i ladre e, in Piedo, da tanc ane, l capitél è là e chi ch pasa s fèrma a di' na oraziòn, lasà n franco, u bète doi fiore. Fin ch l'èra vivo, l Pangon lo curéa, i dadéa l bianco dinze e d fora. Li savé bèn ch al so voto avé cèto bone rèie tra Chèi d lasù e,propio Li, sant'Antone, meritéa d'avèi na béla cedùta, ilò, tra i pras d Piedo e l Ruéibe.

LA CAPPELLEtTA DI SANT'ANTONIO IN PIEDO

Tutte le cappellete che si vedono per le strade, nei boschi, nei prati, hanno una storia: o un voto, o una grazia che è giunta dopo rosari ed orazioni, o un ricordo per qualcuno che ci ha lasciati. Quella di Piedo ha anch'essa la sua storia, ma chi la conosce oggi? Bisogna riandare ai tempi in cui i soldati di quassù, gli alpini, portavano cannoni, viveri, munizioni, tutto con l'aiuto dei muli. I comandanti ci tenevano, più a questi che al conducente che era considerato in tutto e per tutto responsabile del mulo. Veniamo al fatto. Una compagnia d'alpini si era accampata in Auronzo e, tra i pochi che erano di Danta, si trovava anche Iaco, il Pangon. Come sempre avveniva quando uno si sentiva nelle vicinanze di casa propria, anche lui chiese il permesso di recarsi a trovare i suoi. Non si è mai saputo il motivo, ma quel permesso lui non lo ha mai avuto. Si fa buio e, con qualcosa regalato alle sentinelle ed al piantone, lui scappa col suo mulo attraverso il sentiero più nascosto, quello che da santa Caterina saliva verso Danta. Tutto è filato liscio fino a quando egli non ha raggiunto le Rueibe, dove ci si spaventa ancor oggi nel passarle perché il terreno cede e frana anche in mancanza di pioggia. Ma in quella notte diluviava da far paura. Il fanale, coi vetri sporchi e bagnati, mostra d'improvviso un buco. Tornare sui propri passi non era cosa da Pangon!!!! Attaccatosi alla coda della bestia, urla al mulo di saltare oltre quel buco. Il mulo ubbidisce e salta di là, ma il suo peso smuove altra terra e la bestia incomincia a scivolare e rotolarsi giù, giù, giù con rumore di sassi e di frasche rotte. Sfugge di mano anche il fanale quando il Pangòn s'aggrappa ad un rametto per aiutarsi a risollevarsi. Non si vede più nulla e giù in fondo, c'è solo un torrente ingrossato come non mai. Laggiù, nessun segno di vita. Tutto attorno solo i rumori dell'acquazzone e quello d'un brutto vento che si alza e fischia, sempre più forte, tra faggi, pini ed abeti rossi. Nel buio della notte, Giacomo incomincia invece a vedere chiaro: il ritrovarsi tra poco, lì al campo, con il suo capo, il suo comandante e sentirsi dire: "Ti aspetta il carcere di Gaeta"! Sudori freddi ed una tremarella peggiore di una febbre da cavalli fino a quando non ha raggiunto il picchetto di guardia e non ha potuto far loro capire che qualcosa non era andata per il verso giusto e che di mezzo ci sarebbero stati anche loro. I più dritti, i più svegli, nascostisi subito sotto una tenda, ascoltano Giacomo che butta lì l'idea che gli era nata nel momento in cui, per togliersi al più presto la paura che l'aveva preso si gettava lungo lo scosceso sentiero: Far voto a sant'Antonio di erigergli una cappelletta con una sua statua qualora li avesse salvati da ciò che s'aspettavano. Ma bisognava aiutare anche il santo col raccontare una bugia: "Siete di guardia; sentite un rumore proprio lì dove stanno i muli. Date l'allarme : "Che tutti accorrano al recinto dei muli"! Dopo, mancherà un mulo e solo i ladri sapranno dove quello è andato a finire". Come siano andate veramente a finire le cose non lo si è mai saputo, ma i soldati non sono stati mai capaci di trovare i ladri e, in Piedo, da tanti anni ormai, la cappelletta è lì e chi passa di là si ferma a recitare una preghiera, lasciare una lira o deporre due fiori. Fino a quando era vivo, il Pangon la curava, l'imbiancava di dentro e di fuori. Lui ben sapeva che il suo voto aveva trovato orecchi attenti tra Quelli di lassù e, soprattutto, Lui, sant'Antonio, meritava d'avere una bella casetta, proprio lì, tra i prati di Piedo e le Ruéibe.


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L' ARLOIO DAL CIAMPANIN

(Fato dai Solaris d Pesaris zal marzo 1902) Che i ne lasès dì su pr chèlch sala dal cianpanìn era senpro n sogno, ma rué fin dal'arloio era na concuista. T podé però realizarla solo com prémio pr chèlch sarvìdo ch t avé fato a Marino, l mon-go u pr ése sto tra i pì brave z gédia. Chèsto podé capité solo z la béla stasòn pachié ch, cuan ch ruéa l'inverno, mné inze nève da dute cl spézié d fonéstre ch nèi ciamòne "feritoie" e l nève cuardéa i salins e t podé tomà du e fèit mal. Chi ch Marino volé prmiè- n'era ch un a l'ota- spitéa, cun tin d paura, ch al vèrda la porta d fèro pr cor inze e giré i uéie solo da parte di salins pr n véde da cl'autra parte l catafalco smontò ch gnè btù ilò dopo ogni funeral.. Man man ch s déa su, li mostréa l corde d curàme dl cianpane, bèn ingrasade; fadé vède cuanto pì grose ch èra chèle dl trèi grande in confronto a chèle "dal Rosario u d l'Agonìa." .Al scòndo pian, partìa na spezie d strènta caslùta dl lèn ch ruéa fin su sote l cianpane. Dinze, t vdéa " i pése ", tacade a na corda -che i didéa longia pì d vint métre.- fèrme com s'algo d scònto li blochès. A sto punto, li didéa da sntase sul siòlo e spitàlo opur, s l'era d vèna, tachéa l solito ritornél:."Vèdsto chilò sti grose pese ? Cuan ch saròn ruéde su dal'arlòio t vdaràs chié e com ch scuégno fèi, ogni dì, pì' u manco ala stèsa ora, pr tirài da nuévo fin lasù. E' solo l so gran peso ch sprème e fa muove l rode c porta inante l'arloio.. Adés t'avràs capù parchié ch scuégno gnì chilò, ogni dì, sia ch al ténpo sèia bél, sia ch piova, ch maié u ch tanpstèia .E adés movònse! Auzte e don su! Salìn dopo salìn, a ogni feritòia t vdéa du la piéza, l céde, l strade senpro pì' pizle.,T sintìa inveze, senpro pì' forte, l tic tac dl'arlòio. Ruéde a cal so pian, Marino tolé for aI fulminante e, cu na calma da ofiziànte, inpizéa na candèla senpro pronta su n travùto. Vardéa l luchéto dl do portùte d lèn e t s prséntéa doi metre d rode, rodùte, mole e n bilanciér ch ludìa e rimandéa la lus dla candèla ogni ota ch al s movéa pr sormontà n dénto dla gran roda. In médo era n cuadrante: l spère mostrèa l'istèsa ora d cli enorme ch s vdéa fora su duc cuatro i late dal cianpanin e così tanto grande che t vdé l'ora stando a Ciandìde. S spitéa senpro ch rue l momènto bon pr vède chié ch capitéa cuan ch al dové bate i cuarte e li ore. E n t savé gno vardà:Ventole ch partìa, giréa come sote n vénto da paura, braze d fèro ch déa su e du e tiréa na corda tacada a n batòcio ch sbatéa su l'una u l'autra cianpana e, sora l rumòr d feralie, l son potente ch da ilò d sora t fadé strmì. Fnù da bate li ore, Marino mostréa cun chié sforzo l dovéa tiré su la corda cui pese e feila su intorne a chi doi greign cilindre ch era da na parte e l'autra dl'arloio. Dopo li dé su pr na saluta, n dadéa la man e n portéa propio ilò dal cianpane gno ch t sintìa ncamò, senpro pì' pian, l'eco d chi rintoche. L cianpane era algo d gran, de enorme,cu n batocio groso pì' dal nos ciò, ma béle soralduto vardandole intorne gno ch s vdéa disegne e parole. L zercio gno ch'era tacàda la corda pr fèile sonà era pì gran dla fontana dla pieza. L zuco d lèn ch li ciaméa "contrapeso,"somiéa a doi grose bocoign d taia inciodàde insieme. Duto era gran, prfìn i bude dl balconàde da gno ch vardòne fora pr vède l paese, l sumitèrio, santa Barbara, chi paés pì' davdìn e dute l montagne intorne Cuan ch l'avéa n tin d tenpo in pì', Marino dé su pr na salùta d fèro fin zal pianerotolo sora l cianpàne e ne fadé sintì la Batola ch i doré dal Gloria dla Duéiba santa a chèl dal Sabo santo. Fadéa n rumoròn bruto e cupo u forse m parìa così parchié ch al m rcordéa l Véndre santo e cl cerimonie da morto ,cun cla porzsiòn d nuéte, solo cui torze inpizéde e chèlch candèla sul fonéstre. L'ultmo salùdo al paese Marino lo dadéa cuas sot os: pasèa da na cianpana a l'autra e baté sora cu l'ongia d n dèido: t sintìa. ldiér com s al gnès da n ziélo lontan, l sòn d'ognuna e prfin chèla d l'Agonìa parìa volèi dà n'autro sègno a chi ch la sintìa. Gné l momènto da tornà du. N s fadéa fadìa, ma done a pian cu la spranza ch l'arlòio ne salùde, ncamò n'ota, cui quarte e cu li ore, fin ch aròne ncamò saràde zal nos cianpanin.
L'OROLOGIO DEL CAMPANILE

(Fabbricato dai Solaris di Pesaris nel marzo 1902)
Che ci lasciassero salire per qualche gradino del campanile era sempre un sogno, ma arrivarci fino all'orologio era una conquista. La potevi però realizzare come premio per qualche servizietto che avevi fatto a Marino, il sagrestano o per essere stato tra i più bravi in chiesa. Ciò poteva avvenire solo nella buona stagione perché, quando giungeva l'inverno, vi penetrava la neve da tutte quelle specie di finestre che noi chiamavamo "feritoie" e questa neve copriva gli scalini e avresti potuto per questo scivolare, cadere e farti male. Colui che Marino avrebbe voluto preniare -non si trattava che di uno alla volta - attendeva, con un po' di paura, ch'egli aprisse la porta di ferro per entrarci di corsa e girare gli occhi solo dalla parte degli scalini per non vedere da quell'altro lato il catafalco smontato che veniva lì riposto dopo ogni funerale. Man mano che si saliva, lui mostrava le corde di cuoio delle campane, ben unte ed ingrassate; faceva notare quanto più grosse fossero quelle delle tre più grandi in confronto a quelle del Rosario o della Agonia. Al secondo piano, partiva una specie di stretta cassetta di legno che giungeva su fin sotto le campane. Dentro ad essa, tu vedevi "i pesi", attaccati ad una corda - che dicevano fosse lunga più di venti metri - fermi come se qualcosa di nascosto li bloccasse. A questo punto, lui ci diceva di sederci sul pavimento ed attenderlo oppure, quand'era di buon umore, iniziava il solito ritornello. "Vedi qui questi grossi pesi? Quando saremo giunti fin su dall'orologio vedrai cosa e come io debbo fare, ogni giorno, più o meno alla stessa ora, per tirarli nuovamente fin lassù. E' solo il loro gran peso che spinge e fa muovere le ruote che portano avanti l'orologio. Adesso avrai capito perché debbo salire fin qui, ogni giorno, sia che il tempo sia bello, sia che piova, che nevichi o faccia tempesta. Ed ora muoviamoci! Alzati e saliamo! "Gradino dopo gradino, ad ogni feritoia scorgevi giù la piazza, le case, la strada, sempre più piccole. Sentivi invece, sempre più forte, il tic tac dell'orologio. Giunti a questo suo piano, Marino estraeva dalla tasca un fiammifero e, con la calma di un officiante, accendeva una candela sempre pronta e posata su di un travetto. Apriva il lucchetto che chiudeva le due porticine di legno e ti si presentavano due metri di ruote, rotelline, molle ed un bilanciere che luccicava e rimanadava la luce della candela ogni volta che si muoveva per sormontare un dente della grande ruota. In mezzo c'era un quadrante, le lancette segnavano la stessa ora di quelle enormi che si vedevano all'esterno su tutti i quattro lati del campanile e così tanto grandi che ti davano la possibilità di vedere l'ora stando a Candìde. S'aspettava sempre che giungesse il momento buono per vedere che cosa capitava quando l'orologio doveva battere i quarti e le ore. E non sapevi più dove guardare: ventole che partivano, giravano come sotto un vento da paura, braccia di ferro che salivano e scendevano e tiravano una corda attaccata ad un battacchio che sbatteva su l'una o l'altra campana e, sopra il rumore di ferraglie, il suono potente che da lì sopra ti faceva tremare. Terminato il battito delle ore, Marino mostrava con quale sforzo doveva far salire la corda coi pesi ed avvolgerla a quei due grandi cilindri che si trovavano da una parte e dall'altra dell'orologio. Poi lui saliva una scaletta, ci dava una mano e ci portava proprio lì dalle campane dove sentivi ancora, ma sempre più piano, l'eco di quei rintocchi. Le campane erano qualcosa d'incredibilmente enorme. Con un battacchio grosso più della nostra testa, ma belle soprattutto guardandole intorno dove si vedevano disegni e parole. Il cerchio dov'era attaccata la corda per farle suonare era più grande della fontana della piazza. Il ceppo di legno che lui chiamava contrappeso somigliava a due grossi pezzi d'albero inchiodati assieme. Tutto era grande, perfino i fori delle balconate attraverso i quali osservavamo il paese, il cimitero, santa Barbara, quei paesi più vicini e tutte le montagne attorno. Quando disponeva di un po' di tempo in più Marino saliva per una scaletta di ferro fino nel pianerottolo sopra le campane e cim faceva ascoltare la "Racola" che veniva usata dal Gloria del giovedì santo fino a quello del Sabato santo. Produceva un rumore brutto e cupo o forse mi pareva così perché mi ricordava il Venerdì santo e quelle cerimonie da morto, con quella processione notturna con solo torcie accese e qualche candela sulle finestre. L'ultimo saluto al paese Marino lo dava quasi sotto voce: passava da una campana all'altra e ci batteva sopra con l'unghia di un dito: sentivi, leggero come se provenisse da un cielo lontano, il suono d'ognuna e perfino quella dell'Agonia pareva voler dare un segno diverso a chi la sentiva. Giungeva il momento di scendere nuovamente. Non si faceva fatica, ma si andava a piano con la speranza che l'orologio ci saluti, una volta ancora, con i quarti e le ore, finchè ci si trovava ancora chiusi nel nostro campanile.

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N'OTA. MOMENTE D VITA

Pl strade puécè lus; così puéce ch solo chèle ch vién fora dal cusìne dl céde l fa ntin pì vive. Puéce anch chèi ch s vède gnì fora da n portòn cui sèce d ran u cu na sèia pr dì a ciapà n tin d'aga ala fontana; pr tòlse do lègne da portase inze pr al fuégo dla bonòra; pr fèise n scanpòn pr vède chèlch malucò. I soi rumors ch rénde vive strade e céde è chèi d na porta ch zìga, d na fonéstra ch sbate, d n géto ch miaulèia sotando d n balcòn al tasòn di moc btude a suiase. Forte su duto, ogni cuarto d'ora, l sòn dl cianpane ch bate li ore. A calcdun incuei dà sui nèrve l sintì sonà in longo Cianpàna, Mèsa in gran, L'ora d nuéte e prfìn l'arlòio dal cianpanin ch adés bate solo la méda! L cianpane era n'ota l'unica conpagnia ch n t laséa né dì, né nuéte. N'era radio, n'era televisiòn! Pr gòdse l prim ore dla nuéte, anch i pizi déa fòra e vardéa l ziélo e l stèle s n'era la luna.Duto lasù, ch ludìs, intarsiò d punte ch s scondé u s fa intravéde, com ludùte d fulminante inpizéde, lontan lontan, tignùd su da mile man; n continuo duégo d robute ch fa da sfondo al stèle pi' grande, pi' béle, chèle ch dà forma a figure cognosude sui libre d scola u solo pr avèile sintìde nominé. Pi' d duto t ciapa l'emoziòn zal vède cl'imensa strada ch taia fora duto l ziélo e s verdé, a bivio, propio sora d nèi. Na béla lus, solo rovinéda da cl do lanpadine, tignùd su da n filo, tra na céda e l'autra; n chiaror ch, pr vèdlo mèio, t'invita a dì sul scuro davòi l céde. S'* nève, prfìn chèsta ludìs su n so colòr nuévo, sbriò du da chèl dal ziélo. Se inveze é la luna, anch l stèle s sfuma sot al velo d cal ciaròr, condù al'iote,da nughi ch t pitura scene d guèra, cuadre d'arte, ritrate d'omi, d béstie, d'algo ch solo in sogno t vède. I uéie inveze di pizi, sntàde sul liéto d foiòle, travèrso l fonestre zienza scure, s'incola a chi nughi e sbòcia fiore, vien fora ozì ch dòla, bstiùte che sautà fora da chèlch bus, n agnél, n ciavàl, n liòro ch scanpa da n ciàn, fiore movòste dal vénto, angioi e boign diaulùte ch s cor davòi fin a cuan ch al sono n fa nuéte duto chèl ch t e intorne.
UNA VOLTA. MOMENTI DI VITA

Per le strade, poche luci; così poche che solo quelle che escon dalle cucine delle case le rendono un po' più vive. Pochi anche quelli che si vedono uscire dai portoni con secchi di rame o secchie di latta zincata per andar ad attingere un po' d'acqua alla fontana; per prendersi due legni da portarsi in casa per il fuoco del mattino; per farsi una scappatina a vedere qualche malatino. I soli rumori che rendon vive strade e case sono quelli d'una porta che cigola, d'una finestra che sbatte, d'un gatto che miagola saltando da un balcone ad una catasta di pezzi di ceppaie messi lì ad asciugare. Forte su tutto, ogni quarto d'ora, il suono delle campane che batton le ore. Oggi, a qualcuno, dà sui nenvi il sentire suonare a lungo l'Ave Maria del mattino, la Messa solenne, l'Ave della sera e perfino l'orologio del campanile che adesso batte solo la mezz'ora. Le campane erano una volta l'unica compagnia che non ti lasciava né giorno, ne notte. Non c'era radio, non c'era televisione! Per godersi le prime ore della notte, anche i piccoli uscivan di casa e guardavano il cielo e le stelle, se non c'era la luna, Lassù, tutto che brillava, intarsiato di puntini che si nascondevano o si facevano intravvedere come lucette di fiammiferi accesi lontano lontano, sorretti da mille mani; un continuo gioco di piccole cose che facevan da sfondo alle stelle più grandi, più belle, quelle che davan forma a figure conosciute sui libri di scuola o solo per averle sentite nominare. Più di tutto ti colpiva l'emozione nel vedere quell'immensa strada che solcava tutto il cielo e si dipartiva a bivio, proprio sopra di noi, una bella luce, rovinata solo da quelle due lampadine, sorrette da un filo, tra una casa e l'altra; un chiarore che, per vederlo meglio, t'invita ad andare sulla parte posteriore oscura delle case. Se c'é neve, perfino questa luccica su di un suo colore nuovo, strappato da quello del cielo. Quando invece c'è la luna, anche le stelle sfumano sotto il velo di quel chiarore, nascosto a volte, da nuvole che ti dipingon scene di guerra, quadri d'arte, ritratti di uomini, d'animali, di qualcosa che vedi solo in sogno. Invece gli occhi dei piccoli, distesi sui letti di foglie di pannocchia, attraverso le finestre sprovviste di imposte, s'incollano a quei nuvoli e sboccian fiori, appaion uccelli che volano, bestioline che escon saltando da qualche buco, un agnello, un cavallo, una lepre che sfugge ad un cane, corolle smosse dal vento, angioli e buoni diavoletti che si rincorrono fino a quando il sonno non rende notte tutto quanto ti è intorno.

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N MAR D GILIE ROSE

Aròn ruéde,in bici,fin dal capitél d sant'Antone.Mi fra,l'avéa fata cuas duta montò; inveze a mi avé tociò spremla d lòngo su prl Palùde e l Ciòpe: n ero alenò com lì. S son frmàde a ciapà fiò; intanto li m didéa chié ch al m voléa fèi vède du pr cal truéi ch partìa puéco pi' inamte dal bivio verso Oronze. Avéo tanto sintù parlà dla curta dli Ostère ch t portéa z pieza d santa Giustina,ma n savéo s l'era bruta e pricolòda com l Ruéibe e i avéo domandò da fèimla vède. Btùde in scònto l bici sot de n pozué, isolò,tra do file d bi lars, on fato n puéce d metre z n pra ch parìa n giardin tant èra l cualité d fiore ch l'inpìa: gilie e margarite bianche, dale,ciavèi dal Signor, gran mace d san Duane e d chi fioroign da aga.Ero bél contento! A déstra, l col déa su èrto fin sot i giaròign dla Iàrnola; a sinistra faghere e lars; po' sote s scomnzéa a vède n pianoro, barcùte cu la so cedùta. Cul vèrdse d na valuta, s é présntade l zime a confin tra nèi e la Ciàrnia e po', l Marmarole com z na scèna d teatro. Pì' indù done, pì' èra da vardà. Ruòn fora de n boschèto. Du sote, è n mar aranciòn, roso, daluto ch cuas soplìs l vèrdo dli erbe.L truéi,com z duc i bosche, é pien d radìs c t'ingianbaréia s n t lo vàrdé bèn, ma i mi uéie é incolàde a cal incanto cui colors stèse di nughi,dl nostre crode cuan ch,cul di du dal soròio, i s stàia tra l ziélo e l vèrdo di bosche. Coròn. Ades li on chilò dante. S vardòn zi uéie, cuas in dubio s tociài, còili.
Man man ch li coiòne , s didòne: "Ncamò n puéce" e l maz gnèa sénpro pì' gran e, com al pan s t as fame, chèl ch t dontéa n bastèa mai. A la fin,unìde duce, s son dite che i era ncamò da pì' d chèi ch i doréa pr ablì duc i altars pl feste grande u pr al Vèsco e ch podon propio coie n'autro maz pr la gedia. Sote sote, 'sto rgàlo m sa, adés, da roba studiéda pr n sintìne colpevòi dant d Chi ch avéa criò cal cuadro ch vive cui mi rcorde Liéde i trèi maze cui longe gianbe dl'èrba lèsa, tornàde n tin pi' sora e,sntàde su n zuco d lars,s didone gno ch avòn coiòsto sti gilie s duta la validela era ladù ncamò piéna d luére Anze,s èra lvò n tin d vento e t li vdéa muévse com s na man li sprmès da na parte al'autra; èra ondùte ch lasé vède ogni tanto n arié cu l'aga blu, cuas fèrma ch ludìa pr al rifléso de n soroio n tin sbiadù,baso,pèna sora Pian di Boi. Chiète strana e puéce i ozì! N s capacitòne cu la paura ch ciamès tenporal.N tin dopo, davòi d nèi, su vèrso l monte,n nùgal pi' negro di corve; lontan, n ton. Dì ncamò du vèrso Oronze pr cuas med'ora ? Nanch da pnsà! E' inveze da tornà su prèsto pr es fora da cl file d lars, tanto bi cuanto pricolode parchié che i tira i fulmi. L truèi par pì' longo e sofia n vento senpro pi' forte. Ruòn davdìn sant'Antone: n'océda ai fiore d cal giardin ch n'avé colpù pla so blèza Al prim goze son dal pozué; tolòn l bici; s lvòn l ciamède, involtizòn i gilie e, btudli sora i portapache, méd nude, partùn. Sote n mar d'aga fnìs n viado da sogno; chèl di gilie rose,è zal mi cuére, com inclota…
UN MARE DI GIGLI ROSSI

Eravamo giunti, in bicicletta, fino alla cappelletta di sant'Antonio. Mio fratello l'aveva fatta quasi tutta su di essa, io invece avevo dovuto spingerla lungo tutte le Paludi e le Ciope: non ero allenato come lui. Ci siamo fermati per prendere fiato e lui intanto mi raccontava ciò che mi voleva far vedere scendendo per quel sentiero che si dipartiva poco oltre il bivio verso Auronzo. Avevo tanto sentito parlare della scorciatoia delle Ostère che ti portava fino alla piazza di santa Giustina, ma non sapevo se fosse brutta e pericolosa come le Ruéibe e gli avevo chiesto che mi portasse a vederla. Nascoste le due biciclette sotto un abete rosso, isolato, tra due file di bei larici, abbiamo fatto un pochi di passi in un prato che sembrava un giardino tante erano le qualità di fiori che lo riempivano: gigli bianchi, margherite bianche e gialle, capelli del Signore e grandi macchie di "san Giovanni" e di quei grandi fiori gialli, la Calta palustre. Ero già contento! Sulla destra, il colle saliva erto fino ai ghiaioni della Aiarnoila; a sinistra, larici e qualche faggio; più sotto si cominciava a vedere un pianoro, baitine e la loro "ceduta". Coll'aprirsi di una valletta, si son presentate le cime a confine con la Carnia e dopo, come su una scena da teatro, le Marmarole. Più si scendeva, più c'era da ammirare. Usciamo da un boschetto. Giù sotto, c'è un mare arancione, rosso, gialletto che quasi seppelisce il verde delle erbe. Il sentiero, come in tutti i boschi, è pieno di radici che ti fanno inciampare se tu non lo osservi bene, ma i miei occhi son incollati su quell'incanto coi colori stessi delle nuvole, delle nostre montagne quando, al tramonto del sole, si staglian tra il cielo ed il verde dei boschi. Corriamo…. Ora li abbiamo qui davanti. Ci guardiamo negli occhi, quasi in dubbio se toccarli, coglierli. Man mano che li si raccoglieva, ci si diceva: "Ancora un pochi"! ed il mazzo s'ingrandiva sempre di più e, come il pane se hai fame, quelli che aggiungevi non bastavan mai. Alla fine, messili assieme, ci siamo detti che erano ancora di più di quelli che usavano per abbellire tutti gli altari in occasione delle festività o dell'arrivo del Vescovo e che ne avremo potuto raccoglier ancora un mazzo per la chiesa. Sotto sotto, farle 'sto regalo, mi sa adesso da cosa studiata per non sentirsi colpevoli davanti di Chi aveva creato quel quadro che, ancor oggi, vive coi miei ricordi. Legati i tre mazzi coi lunghi gambi dell'erba lèssa, ritornati u po' più sopra e, sedutici su di una ceppaia di larice, ci si domandava dove avessimo colto questi gigli se tutta la valletta ne era , laggiù, ancor tutta piena. Anzi, poiché s'era alzato un po' di vento, li vedevi ancor più belli, agitati come onde e lasciavano intravvedere ogni tanto un rivoletto d'acqua blu, quasi ferma, luccicante al riflesso d'un sole un po' sbiadito, basso, appena sopra Pian dei Buoi. Quiete strana e pochi gli uccelli. Non ce se ne capacitava con la paura che ciò presagisse l'arrivo di un temporale. Dopo un po', alle nostre spalle, su verso il monte, una nuvola più nera dei corvi e, lontano, un tuono. Neppur da pensare, allora, a scendere ancora per quasi mezz'ora giù verso Auronzo!!! Bisognava invece risalre presto per trovarsi al di fuori di quelle file di larici tanto belli quanto pericolosi perché attirano i fulmini. Il sentiero pare più lungo e soffia un vento sempre più forte. Arriviamo nei pressi di sant'Antonio. Osserviamo appena i fiori di quel giardino che ci aveva colpito per la sua bellezza. Alle prime gocce, siamo dall'abete; prendiamo le bici; ci togliamo la camicia, avvolgiamo in essa i gigli e posatili sui portapacchi, seminudi, partiamo. Sotto un mare d'acqua finisce un viaggio da sogno; quello dei gigli rossi, è rimasto nel mio cuore, come allora…

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N S-CIAFO PR LA MORTE D N PAPA

ZAl nos paése s déa a scola senpro fin ala cuinta, se s ruéa, e s no,almanco fin ai cuuatordze ane. S calcdun però, fnìde l zinche clase sui dodze ane, avé voia da tornà a scola parchié ch i piasìa inparà ncamò algo, domandéa ai maestre ch i lo tola come s al fos n ripetente, almanco pr chèlch mèis. Capitéa così da cétà z la pluriclase di cuarta e cuinta i pi' bravute sui undz ane aped chi calandroign ch déa pr cuindze. Dina Brssàn e ié avone fnù la scola d duign dal 38, ma i ne avéa tolòsto da nuévo l'an dopo come volontarie. Z la nostra aula, chèla di grèign, èra anche na radio e, cuan ch èra la trasmisiòn pl scole, i maestre portéa ilò anche i canaie d cliétre clase. S'èra algo d bél, lo seguìa duce e s no i maestre avéa l so bél da fèi pr lasàne scoltà chèl chi trasmtéa. Aròne ai 10 d febraio: n puéce d nèi, s spitéa ch scomènze l concorso cu i segnài d l'alfabéto Morse ch ne piasìa pi' d duto; étre parléa, come senpro, e fadé confusion. A n zèrto punto, èco l ségnàl d inizio dal programa pl scole e, lolo dopo, na os : "La prevista trasmissione è sospesa a causa della morte del Papa Pio XI". M lévo in pès e digo:" E' morto l Papa, poròn" e m sèi btù a vardàlo, senpro pi' fisso e ingropò, su cal cuadro inpicò tra l do fonéstre: Li é propio ilò, vivo, tra l Re e l Duce. Crèdo ch nanch i maéstre sèia forse stade tanto aténte u n'èbia capù lolo sta nuéva parchié ch'a volù tenpo inant ch na maestra m ruès davdin e la m dides:"Ma sei diventato matto? Cosa t'è venuto in mente? Spauru, serio,ripeto:"L Papa é morto A mi, ch'a scola n'avé mai tociò d ciapà n s-ciafo,m'é ruò un che,pal spavénto, m'à parù da fèimla adoso e, cu l lagrime ch me cuardéa i uèie èi dito al mi maéstro: "Sente che suonan musica triste"? Intorne, n silenzio senpro piì gran. Ié poio l ciò sul banco, umiliò,dsprò.N bontin dopo, siénto la so os forte cuérde l rumòr d l'aula: " Maestre e bambini, tutti nelle vostre classi"Po' m'à solvò l ciò, m l'à strènto forte, cuas da fèime mal come l s-ciafo dla maestra e màa suiò l lagrme. Ei capù cal m voléa bèn e l s scuséa pr chel ch m'èra tociò. Intanto, fora, avéa scomenzò a sonà l cianpane a morto.Sbèn ch n'era ncamò l'ora,i n'à fato dì duce a céda. Pl strade era pién d dénte ch s domandéa u s contéa parchié ch i sonéa. Pi' d un piandéa; tance era triste. N Papa era sènpro n Papa! Pr Danta, po', na tragédia !!!
UNO SCHIAFFO PER LA MORTE DI UN PAPA

Nel nostro paese si andava a scuola sempre fino alla quinta, se ci si arrivava, altrimenti, almeno fino ai quattordici anni. Se però qualcuno, finite le cinque classi a dodici anni, desiderava tornar a scuola perché gli piaceva imparare ancor qualcosa chiedeva ai maestri di accettarlo come ripetente, almeno per qualche mese. Capitava così di trovare nella pluriclasse di quarta e quinta i più bravetti sugli undici anni assieme a quei calandroni prossimi ai quindici. Dina Bressan ed io avevamo finito la scuola nel giugno del 38, ma ci avevan ripreso di nuovo l'anno dopo come volontari. Nell'aula nostra, quella dei grandi, c'era una radio e, durante la trasmissione per le scuole, le maestre portavano in essa anche i bambini delle altre classi. Se davan qualcosa di bello, era seguito da tutti, altrimenti i maestri dovevano faticare per lasciarci ascoltare la trasmissione. Era il 10 di febbraio: alcuni di noi aspettavan che iniziasse il concorso coi segnali dell'alfabeto Morse che ci piaceva più di tutto; altri parlavan come sempre, e facevan confusione. Ad un tratto, ecco il segnale d'inizio del programma per le scuole e, subito dopo, una voce: "La prevista trasmissione è sospesa a causa della morte del Papa Pio XI". M'alzo in piedi e dico: "E' morto il Papa, poveretto" e mi metto ad osservarlo, sempre più fisso e commosso, su quel quadro appeso tra le due finestre: Lui è proprio lì, vivo, tra il Re ed il Duce. Credo che neppure i maestri avessero prestato forse tanta attenzione o non avessero subito capito questa notizia perché ci è voluto un po' di tempo prima che una maestra mi giungesse vicino e mi dicesse: " Ma sei diventato matto? Che cosa ti è venuto in mente"? Le ho ripetuto, serio, spaventato: "E' morto il Papa". A me, che a scuola non era mai capitato di prendere uno schiaffo, me ne è arrivato uno che, per lo spavento, m'è sembrato di farmela addosso e, con le lacrime che mi coprivano gli occhi, ho detto a quello che era il mio maestro: "Lei sente che stanno suonando una musica triste"? Attorno un silenzio sempre più grande. Io poso la testa sul banco, umiliato e disperato. Un bel po' dopo sento la sua voce forte coprir il rumore dell'aula: "Maestre e bambini, tutti nelle vostre classi"! Poi, mi ha sollevato la testa, me l'ha stretta forte, quasi da farmi male come lo schiaffo della maestra e mi ha asciugato le lacrime. Ho capito che mi voleva bene e che si scusava per quello che mi era capitato. Fuori intanto, le campane avevano incominciato a suonare a morto. Quantunque non fosse ancor giunta l'ora del termine delle lezioni, ci hanno mandato tutti a casa. Per le strade c'era pieno di gente che chiedeva o raccontava perché stessero suonando. Più di qualcuno piangeva; tanti erano tristi! Un Papa era sempre un Papa! Per Danta, poi, una tragedia!

L PRIMO PIC-NIC SUI PIANI DE DANTA

Arone dal 1961 e, in acordo tra Comun e l dr.Nicolò De Sandre. Diretor dl’Azienda d sogiorno d Sa Stefi, on deciso d fei na festa sui Piane che, cu la Strada dla Tot, era gnud ragiungibile anche cul machine. Na novité che ne à procurò preocupazion seia pr parciala, seia pr la paura dal bruto tenpo ch podé fei bicé via l ciarne e cl’autra roba ch podé di’ a mal. Giornai e Radio veneta à publicizò l’iniziativa e l premio da tiré fora tra l machine che ruea a Danta à fato l resto. E’ ruede Autorità e pi’ d 700 prsonee dal Comelgo, Sapada e da duto l Cadore e tra dueghe, core d montagna, tire ala fune, corse cul baréle e polentone fate dai nos boscaioi cun chile e chile d luganeghe è sto na festa che à durò trei dis. La roba che pì’ fa sprà pr al doman d Danta è sto l’incontro tra aziende d sogiorno d’Oronze e Sa Stefi aped chi sindache e chel d Danta pr organizé, n’ota fnida la strada, n colegamento tra la Val dla Piai e chela dl’Ansiei pasando pr Danta. Se e cuan ch sta roba podarà gni fata n e sa, ma l’idea è nasuda proprio in ocasion dal pic-nic d cal feragosto.


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IL PRIMO PIC-NIC SUI PIANI DI DANTA

Eravamo nel 1961 e, in accordo tra Comune ed il dr. Niccolò De Sandre, Direttore dell’Azienda di Soggiorno di Santo Stefano di Cadore, abbiamo deciso di fare una festa sui Piani che, con la strada della Tot, erano diventati raggiungibili anche con le macchine. Una novità che ci ha dato preoccupaziomi, sia per preparala, sia per il timore che il brutto tempo potesse obbligarci a burttar via le carni e gli altri generi deperibili. Giornali e Radio veneta hanno pubblicizzato l’iniziativa ed il premio da estrarre a sorte tra le macchine che fossero giunte a Danta, hanno fatto il resto. Si son viste Autorità e più di 700 persone dal Comelico, Sappada e da tutto il Cadore e, tra giochi, cori alpini, tiri alla fune, corse con carriole e grandi polente preparate dai nostri boscaioli assieme a chili e chili di salsicce, è stata una festa che è durata tre giorni. Ciò che più fa sperare per il futuro di Danta è stato l’incontro tra le Aziende di soggiorno di Auronzo, santo Stefano assieme ai loro sindaci ed a quello di Danta per organizzare, una volta ultimata la strada, un collegamento tra la valle del Piave e quella dell’Ansiei attraverso Danta. Se e quando ciò possa venir attuato, non si sa, ma l’idea è nata proprio in occasione del Pic-nic di quel ferragosto
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Articolo apparso sul Gazzettino del 24 agosto 1961

CUAN CHE S'A' BURDO' L TABIE' DI SANTINS

Una dl robe che m’à tanto inpresionò da pizal è sto l vede, pr la prima ota, cal gran fuego che cuardéa duto cal tabié ch se cetea lolo al’inizio d dla Duda.. Pr me. era scomnzò duto cu n sonà dl cianpane a martel e l vede pl strade la dente che coré su verso Pieza, spavntada, pasando la os d core in Vilapizla ch burdé n tabié. Duce nei  canaie, curiose d vede chié ch sucedéa, se son  biciede in medo ai greign e, ruede davdin l Comun on visto a tiré fora, da n local sora l Caselo, la ponpa, mai vista inante parchiè che forse i l’avé conprada da pueco. N’esistea nè ponpiere, nè bocche d’incendio. La guardia cu n puece de omi, à scomnzò a spremla verso Ciorì. Manie e atreze che n cognosòne, era stade dade ai doign che coréndo pi’ forte, dadé muedo che st manie fos bel pronte e srotolade, davdin l fuego, pena ch ruea la ponpa. A n zerto momento la guardia ordna ch se torne duce verso ceda pr tole sece e seie e betse z Pieza, ilò dala vasca d deposito, pr inpile,pasasle d man in man fin gno che era rueda la ponpa e ilò, dale ai omi  pr ch i bices l’aga zla ponpa. I canaie deve tole l seie  svuetade e riportale z pieza pr inpile da nuevo. N tin pr dase inportanza, n tin pr sintise brave com chei ch s pasea l seie piene, nei on seguù la guardia fin che on visto sto fuego ch avé bel ciapò duto l cuerto e l fiame gne fora anche dal fonestrute dl stale parchié ch burdea anch al fien che  era tomò du cui sofite. L ciaudo gné su fin dal prine cede e nei, duce sguatrizede, corone a tole seie vuete pr riportale z pieza a ciariale. Cuanto ch ebia durò sto fuego e cuanto che seia srvida la ponpa, propio n savarà pi’ dì’. M rcordo solo che i dis’ dopo duce nei tornone a vede chié che era rstò dal tabié e vdone solo mur negre e, d fora, tassoign d bocoign d trave e d breie mede burdede. Tra la dente t sintìa a dì’ che era sto do fuego ma pr nei valé solo cl’esperienza ch n’avé fato capì cuanto inportante era sto  l’organizé l  bete in pes la ciadena d’omi e femne ch à podù dà aga ala ponpa così lontana dala vasca d deposito. E, pr n’ota, anche se son ruede a ceda cui vstis sporce u biandade, l nostr mare ne à lasade in pas u forse l ne à anch dite “brave”.

QUANDO SI E' BRUCIATO IL FIENILE DEI SANTIN

Una delle cose che, da piccolo, mi hanno tanto impressionato è stato il vedere, per la prima volta, quel grande fuoco che copriva tutto quel fienile costruito subito all’inizio della Duda. Per me, tutto aveva avuto inizio con un suonare di campane a martello ed il vedere per le strade la gente che correva verso la Piazza, spaventata, passandosi voce di correre verso Villapiccola dove stava bruciando un fienile. Tutti noi piccoli, curiosi di vedere cosa succedesse, ci siamo intrufolati tra i grandi e, giunti presso il Municipio, abbiamo visto che facevan uscire, da un locale sopra la Latteria, la pompa, mai vista prima forse perché acquistata da poco. Non esistevan né pompieri, né bocche d’incendio. La guardia ed alcuni  uomini, hanno iniziato a spingerla verso Ciorì. Maniche ed attrezzi che non conoscevamo, erano stati consegnati ai giovani che correndo più veloci, davano modo a queste maniche d’esser già pronte e srotolate, nei pressi del fuoco, all’arrivo della pompa. Ad un certo momento la guardia ordina che tutti tornino verso le proprie case per prendere secchie e secchi, portarli in Piazza, vicino la vasca di deposito, per riempirle, passarli di mano in mano, fino al punto dov’era giunta la pompa e lì, consegnarli agli uomini affinché ne versassero l’acqua nella pompa. I bambini dovevano prendere le secchie svuotate e riportarle in piazza per riempirle nuovamente. Un po’ per darci importanza, un po’ per sentirsi bravi come coloro che si passavano i secchi pieni, abbiamo seguito la guardia fin dove abbiamo visto quel fuoco che aveva ormai coperto tutto il tetto e le fiamme uscivano anche dalle finestrelle delle stalle perché bruciava anche il fieno che vi era caduto assieme ai soffitti. Il caldo saliva fino alle prime case e noi, tutti fradici, si correva a prendere secchie vuote per riportarle in piazza, a ricaricarle. Quanto sia durato questo fuoco e quanto sia servita la pompa, proprio non lo saprei più dire. Mi ricordo solo che, nei giorni successivi, noi tutti ci si tornava per vedere cosa fosse rimasto del fienile ed eran solo muri neri ed, all’esterno, cataste di pezzi di travi e di tavole mezze bruciate. Tra la gente si vociferava di un fuoco non casuale, ma per noi valeva solo quell’esperienza che ci aveva fatto capire quanto importante fosse stato il fatto di aver creato  una catena si uomini e donne capace di dar acqua ad una pompa tanto lontana dalla vasca di deposito. E, per una volta, anche se giunti a casa con vestiti sporchi e bagnati, le nostre madri ci hanno lasciato in pace o forse, ci hanno detto anche “bravi”.
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L’ANGELO CUSTODE CH N SE VED PI' SULA CEDA

Una Da pizal in su, ruando z pieza, deo davdin la fontana e vardeo,sula ceda d Sandro Bastianel, l cuadro dl’Angelo Custode. I  n’avé tanto spiegò chì’era li ch ne salvea cuan ch se cetone in pricol e i ne racomandé da inparà ben la so oraziòn e ripetla cuan ch algo ne fades paura., Chel ch t vdéa su cal muro era n bel angioluto, cu li ale verte e, li, ch spordea na man a n rieduto ch stadé pr tomà du ze n bus, dopo ch l’era ruò ilò in zima per coie fiore .La scena s presenté  duta liegra e fiorida ch la t oblighéa a frmate e pnsà come ch pué pnsà n riedo d fronte al bel. Na scorziata d canaie però, in riga e zienza parlase s’incontrea ilò, n’ota a l’an, ai doi d’otobre, apena l dì dopo ch era scomnzò l’an d scola parchié ch ricoréa la festa di Angeli Custode. La maestra t’avé spiegò gno e parchié ch la n porté du z pieza e, pr duce i canaie, era na dopia festa. N tin a l’ota l cede, ch risalia dute al rifabrico, à scomnzò a canbié fisionomi;  è gnude pì’ aute, è staf dontade pioi e canbiede fonestre. Anch la ceda dl’Angiol è stada ozada d n pian e inblida da n longo piol  Ma l’Angiol, l rieduto, l bus cu l’aga sote à dolò via !.

L’ANGELO CUSTODE CHE NON SI VEDE PIù SULLA CASA

Da piccolo in su, giungendo in piazza, mi avvicinavo alla fontana e guardavo, sulla casa di Alessandro Bastianel, il quadro dell’Aneglo Custode. Ci avevano tanto spiegato che era lui che ci avrebbe salvati quando ci fossimo trovati in pericolo e ci raccomandavano di imparare bene la sua preghiera (Angelo di Dio) e ripeterla quando qualcosa ci facesse paura. Ciò che tu vedevi su quel muro era un bel angioletto, con le ali spiegate e, lui, che allungava una mano ad un ragazzino che stava per sprofondare in un buco dopo d’essere giunto fin lì in cima con l’intenzione di cogliere dei fiori. La scena si presentava tutta allegra e fiorita al punto che ti obbligava a fermarti e pensare come può pensare un bambino di fronte al bello. Uno stuolo di bambini però, tutti in riga e silenziosi, s’incontravano lì, una volta all’anno, il due di ottobre, appena il giorno dopo che aveva avuto inizio l’anno scolastico perché ricorreva la festa degli Angeli Custodi. La maestra ti aveva ben spiegato dove e perché ci avrebbe portato in piazza e, per tutti i bambini, questa cosa rappresentava una doppia festa. Un po’ alla volta le case, che risalivano tutte al periodo del rifabbrico del paese, iniziarono a cambiare aspetto; sono divenute più alte, sono stati aggiunti poggioli e sostituite finestre. Anche la casa dell’Angelo è stata rialzata di un piano ed abbellita con un lungo poggiolo. Ma l’Angelo, il ragazzino, il buco dove scorreva l’acqua son volati via!
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ZIRIE, RONDI E NUETLE
 
Sfortunede i canaie d’incuei e intristide anche chei sula zincuantina se pnson a chel ch vdone sora d nei a cuerde l cielo de ale, d  svolaze, d gare a chi ch dé pì in auto u savé bicias du com fols a pionbo. Fin dal lvase dal soroio t sintia l zirie, poiede sui file dla lus, a ciantàcias in gara una cu l’autra. Lolo al so ritorno, via pal dì,, t l vdea a dolà in zerca  d ramute, piume e erbute sèce pr feise la coa. Pì inante, nasude i pizi, era n dase al canbio tra mare e pare a fei la spola tra tera e coa pr portà n vrmuto, na mosa, n inseto a chei ch li spitea spalancando la bocia. Fin da pizi vardone anch se l dolé aute u base pr savei chié tenpo ch l’avrà fato, ma pasone ore solo a vardale a corse davoi come che fadone nei pr borbiné.  E chesto duré fin d’otono, ma ai prime frèide te l vdea  a scomnzà a unise sui file dla lus. Medo paese s btea for d ceda a vardale  e intanto i file s’inpìa d negro e po’, na dì, n nugal negro movimentea l zielo e n stridio tocea l cuere e cuardeali eche d marveia e d tristèza ch gné su dala strada. Presto, purtropo, l nugal  dla biancolina avrà ciapò l so posto. N’autro spetacolo era vede i rondoign, paroign dal cianpanin. Cuante coe che i s’ebia fato tra chi tofe n se savarà mai.Solo l mongo déa fin su sote l cianpane a tiré su la corda dl’arloio, ma n l’avé zerto voia d dì a varda i rondoign ch spadronegièa fin du z pieza. Cu gné sèra, solo l nuetle s fadé vive- e, pr fortuna li era rare! -  in giro pal paese e, tra la tristeza pal scuro, la paura che ste bestie rue a ciapate i ciavei e l storie di vece sul so portà dsgrazie,  n te auguré zerto d sintitla dolà dintorne  u dì a dormì e cetatla z canbra cul fonestre verte.  Da n pueco d tenpo, seia sto pal Rocal fato du al Comun che, pr tance ane, à servù a maza ozì d’ogni tipo, seia pr i diserbante u i pesticide, Danta n’è pì l luego gno  che ciape d zirie e d’ozì d’ogni genere s fa
dé ceda e n continuo stornì d’ale ronpé i silenzie.

RONDINI, RONDONI E PIPPISTRELLI

Sfortunati i ragazzi di oggi e rattristati anche coloro che sono sulla cinquantina se pensiamo a quello che vedevamo sopra di noi a coprire il cielo di ali, di svolazzi, di gare a chi saliva più in alto o sapeva tuffarsi giù dritto come i fili a piombo. Già al sorgere del sole sentivi le rondini, posate sui fili della luce, cantarsi in gara l’una con l’altra. Al loro ritorno, nel corso della giornata, le vedevi subito  volare in cerca di rametti, piume ed erbe secche per farsi il nido. Più avanti, nati i piccoli, era un alternarsi tra madre e padre nel fare la spola tra  terra e nido per portarvi un vermetto, una mosca, un insetto a quelli che li attendevano spalancando la bocca. Fin da piccoli osservavamo anche se volassero basse per sapere quale tempo avremo avuto, ma trascorrevamo ore nell’osservarle a rincorrersi come facevamo noi bambini giocando. Ciò durava fino all’autunno, ma ai primi freddi vedevi che incominciavano ad unirsi sui fli della luce. Mezzo paese, sull’uscio, le osservava  mentre questi si riempivano di nero e poi, un giorno, un nuvolo nero movimentava il cielo ed uno stridio toccava il cuore e copriva  gli echi di meraviglia e di tristezza che salivano dalla strada. E  purtroppo presto  il nuvolo della “biancolina” avrebbe preso il loro posto. Un altro spettacolo era vedere i rondoni, padroni del campanile. Quanti nidi si siano fatti tra quei tufi non lo si saprà mai. Solo il sagrestano saliva fin sotto le campane per sollevare la corda di carico dell’orologio, ma non aveva certo voglia d’osservare i rondoni che spadroneggiavano fin sulla piazza. Giunta la sera, solo i pipistrelli si facevano vivi – e per fortuna erano rari!-  in giro per il paese e, tra la tristezza per il buio, la paura che queste bestie riuscissero a prenderti i capelli e le storie dei vecchi che li dicevano portatori di disgrazie, non ti auguravi certo di sentirtelo volare attorno o andare a dormire e trovartelo in camera con le finestre aperte. Da un po’ di tempo, sia stato per il Roccolo costruito “al Comun” che, per tanti anni, è servito ad uccidere uccelli d’ogni tipo, sia per i diserbanti o i pesticidi, Danta non è più il luogo dove stormi di rondini e di uccelli d’ogni genere si facevan casa ed un continuo stormire di ali rompeva i silenzi.

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PITE PL STRADE E PULINEIS ZL CIANUE

M dspias d n’avei nanch na foto d cuan ch l pite giré libre pl strade dal  paese e dea a pouase sui tasoign dl legne btude a suiase sote l fonestre d ceda. N pasea machine, n’era cers  s no che chel d Pagogna u d Saltamento ch pasea a turno pr portane do robute d fruta e, cul neve e la lioda, algo d vrdura. La dente n fadé caso a vede ste pite  sula strada parchié che duce avéa na cianua e, fora d chi ch avea tabié e stala pr alvà anche pite, z cianua i s’avea fato anche l pulinei.
Così, da doman bonora, l femne molé fora st bestie ch gné parone dal paese e t l vdea ogni tanto a dolà sui tasoign e cuzase du magare anche davdin i gete così bituede  a ele da sta insieme zienza feise barufa. Da dsera , dante l cianue, era duto n “pio pio” fato dal parone pr ciamà l pite a madon e t le vdea core pì ubidiente di canaie ala os dla mare. D rado t l sintia a becolase dante algo d masa gran pr mangiaslo. Forte era inveze l verso che l s fadea pr avrtise ch sora dolèa l’ozel dl gialine e, fin che li era davdin l cede, l riusia a salvase, ma cuan che l se cetea du pl Ravine t era sguro da vedlo a pionbà du e ozase lolo con una zal beco. Era stade inutile l zighé dl femne dai balcoign u l tntà d feilo scanpà sbatendo i scure u l banciute gno ch li era sentade. Solo n’ota ciamade a madon s savea d chi ch era la pita ch l’ozel avea mazè. S l’era na vecia, era n bon bruedo manciò; s l’era dona da doman, t’ave senpro n uevo d manco da portate a ceda. Ma pr n puece d dis almanco, sntade sul banciute dant l cede, l femne avea d chiè contase!

GALLINE PRE LE STRADE E POLLAI NELLE CANTINE

Mi dispiace di non avere neppure una foto di quando le galline giravano libere per le strade del paese ed andavano a posarsi sulle cataste della legna messa ad asciugare sotto le finestre di casa. Non passavan auto,   non c’erano carri all’infuori di quello di Pagogna o di Saltamento che salivano a turno per portare due cosettine di frutta e, con la neve e la slitta, qualcosa di verdura. La gente non ci faceva caso a queste galline sulla strada perché tutti disponevano di una cantina e,  esclusi i possessori di fienili e stalle dove allevarvi anche galline, in cantina si eran fatti anche i pollai.
Così, di primo mattino, le donne facevan uscire ‘ste bestie che divenivan padrone del paese e le vedevi, ogni tanto, volare sulle cataste ed accucciarsi anche vicino ai gatti senza baruffare. Di sera, davanti alle cantine, era tutto un “pio pio” fatto dalle donne per invitare le galline al rientro e le vedevi correre più ubbidienti dei bambini alla voce della madre. Di rado le sentivi baruffare davanti a qualcosa di troppo grande per  contenderselo. Forte era invece il verso che si facevan per avvertirsi che lì sopra volava il falco e, fino a  quando si trovavano presso le case, riuscivano a salvarsi, ma quando si trovavano nelle Ravine, eri sicuro di vederlo piombare e ripartire con  una nel becco. Inutili erano state le grida delle donne dalle finestre o il tentare di farlo fuggire sbattendo le imposte o le panchine su cui erano sedute. Solo una volta  rientrate, si sapeva di chi fosse stata la gallina che il falco aveva ucciso. Se era una vecchia, era un buon brodo mancato; se invece era una giovane, ogni mattina avevi sempre un uovo in meno da portarti a casa. Ma per un pochi di giorni almeno, sedute sulle panchette davanti casa, le donne avevano qualcosa da raccontarsi.

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SCOLTANO  NA  RADIO FORESTA

La guera era fnida da tenpo  e s’avé scomnzò a sta ben parchiè ch se cetea laoro zienza gni mate a core d ca e d là. Cul laoro l fameie avé anch la posibilité d rangiase la ceda, d canbiase vstis, ma soralduto d podei mangé manco mal  duc i dis e no solo dla domenia. Z tante cede se avé bel la radio e se scoltea dala Rai musiche e nueve trasmisions d prosa, ma anche l notizie da l’Italia e dal mondo. Da nei se ciapéa polito, zienza l tante scariche d zerte stazion taliane,   anche Radio Monteceneri e nschié  stazion straniere. Z ceda mia gné speso pr parlà, posà e scoltà la radio anche  Caio. Na dì,intanto ch gireo la manopola pr canbié stazion, siento un ch parla n bonisimo talian e , curiose, scomnzon a scoltalo. N al  fadé autro che dcantà la bela vita ch al so governo garantia a duce luere  soralduto ai operai. In Italia invece, li didea, era solo miseria, niente laore, paroign ch maltratea i so puece dipndente , ma pedo d duto, n governo ch stadea in pes solo cu la prepotenza dla polizia. L’on  scoltò fin ala fin: era na trasmision d Radio Praga , fata pr i operai,ch gnè riptuda ogni dì, ala stesa ora e in tante etre dla dornada. Inante caminé, Caio m’à dito d rcordame gno ch era sta stazion in muedo da podeila sintì anche al dì dopo. Così è sto. Cuan che però l’à sintù l giornalista a ripete che in Italia n’è laoro, n’è ospdai, che s muere d fame è sotò su come n gel urlando: “ Can da l’o…!. Vien chilò e varda come ch sta l robe. N t vede che ai doign n basta pì nanche la pastasuta cul toc, ma i vué anche la bisteca e gote d vin.?  Dstuda, Piero, dstuda  la radio, t preio,ch al m fa gni tristo pì dl bise. E dsmentia com cetalo cun cla manopola”! E, com senpro, li à continuò a gni a posa da nei, ma d Radio Praga n s’à pì parlò e nanche n s l’à pì’ scoltada.  

ASCOLTANDO UNA RADIO STRANIERA

La guerra era finita da un pezzo e si era incominciato a star bene perché si trovava lavoro senza diventare matti a correre di qua e di là. Col lavoro le famiglie trovavano anche la possibilità di sistemarsi la casa, di cambiarrsi  i vestiti, ma soprattutto di poter mangiare discretamente tutti i giorni e non solo alla domenica. In tante case si aveva ormai  la radio e si ascoltava dalla Rai musiche e nuove trasmissioni di prosa, ma anche notizie dall’Italia e dal mondo. In paese si ricevevano bene, senza le tante scariche di certe stazioni italiane, anche Radio Monteceneri ed alcune stazioni straniere. In casa mia veniva spesso per conversare e passare il tempo ed ascoltare la radio anche  Caio. Un giorno, mentre stavo girando la manopola per cambiare stazione, sento uno che parla un perfetto italiano e, curiosi, incominciamo ad ascoltarlo. Non faceva altro che decantare la bella vita che il suo governo garantiva a tutti loro e specialmente agli operai. In Italia invece, lui diceva, c’era solo tanta miseria, assoluta mancanza di lavoro,  padroni che maltrattavano i propri dipendenti, ma peggio di tutto, si aveva  un governo che si reggeva in piedi solo con la  prepotenza della polizia. Lo abbiamo ascoltato fino alla fine. Si trattava di una trasmissione di Radio Praga che veniva programmata per gli operai ogno giorno a quella stessa ora ed in tanta altre  nel corso della giornata. Prima di andarsene, Caio mi ha raccomandato di ricordarmi dove potessi ritrovare quella stazione in modo da poterla riascoltare anche il giorno dopo. Così è   avvenuto. Quando però ha sentito il giornalista che ripeteva che in Italia non si trova lavoro, non ci sono ospedali, che la gente muore di fame, è balzato i  piedi  come un gatto urlando: “Can dall’o…!  Ma vieni qui e controlla come stanno veramente le cose. Non vedi che ai giovani non basta più neppure la pasta asciutta condita con il sugo della carne, ma pretendono anche la bistecca e bicchieri di vino?  Spegni la radio, Piero, spegnila ti prego, che questo mi fa diventare cattivo più delle vipere. E dimenticati di come ritrovarlo con quella manopola”! E, come sempre, lui ha continuato a venire in casa nostra per far passare il tempo, ma di Radio Praga non si è più parlato e non la si è nemmeno  mai più ascoltata.

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CIANPANE E NINA NANE SONADE SUI RESTE DI PILOIGN DLA TELEFERICA MILITAR
 
 Cuan che dal 1917 i todese à roto l difese taliane a Caporeto, duce i nos soldade ch’era in Comelgo e in Cadore avé ciapò l’ordi di ritirase  e dì du verso la Pianura, ma prima i dové dà fuego aideposire zi magazins e fei sotà ponte, strade e duto chel ch podé srvì al nemico che gné inante. Durant al primo periodo d guera, era stada costruida na bela teleferica che, pasando pr Danta, unìa Oronze e Cianpdel, cu na  stazion d scanbio a Stalarué di Nodare e una du al Pian.  Inant d scanpà i soldade l’à fata sotà taiando, in furia, un auto, un pì’ baso, i piloign d fero ch sostignia i cave. L gran spiazo ch’era rstò fadè comdo  a nei canaie d zinche, dies ane pr cetase ilò a doié, cui balete u solo pr corse davoi, fora d pricoi e di ueie di greign. Z al tirè crode contro i reste d chi piloign s son inacorte che , pena colpide,i fade duce n bel son, ma diverso un dal’autro. Inveze d tirài crode, on scomnzò a  bati cun cheste e on scoprù  che podone imité l cianpane nostre u, riptendosolo  trei note, cla nina nana che ne cianté l nostr mam  . ( La trascrivo in ciò d sta storiela).  Era com podei invntase anch melodie nueve e pr nei gnente era pì’ bel!  Son gnude po’ pì’ greign e na dì se son inacorte che a calchdun avé fato comdo taié raso tera l resto d sti piloign pr vendi a un che gné a tol su fero vecio. L gran pian è rstò ncamò pr i pizi fin a cuan che l’è sto ocupò dai i Boze che à fato la siega e pì’ tarde la Metrica. Son rstade in puece ormai a rcordà “l cianpane dla teleferica” e forse ncamò manco a rinpiange cal muedo d pasase l tenpo, liegre cun niente, usolo cul  ciantase la nina nana.

CAMPANE E NINNA NANNE SUONATE SUI RESTI DEI PILONI DELLA TELEFERICA MILITARE

Quando nel 1917 i tedeschi hanno rotto le difese italiane a Caporetto, tutti i nostri militari che si trovavano in Cadore e in Comelico avevano ricevuto l’ordine di ritirarsi e scendere verso la Pianura, ma prima dovevano  incendiare i depositi nei magazzini e far saltare in aria ponti, strade e tutto ciò che avrebbe potuto servire al nemico che avanzava. Durante il primo periodo di guerra era stata costruita una bella teleferica che, passando per Danta, univa  Auronzo a Campitello, con una stazione di scambio a Stalarué dei Nodaro ed una  sotto il paese, al Pian. Prima di fuggire  i soldati l’hanno fatta saltare con le mine e, con tanta fretta, hanno tagliato, uno alto, uno più basso, i piloni di ferro che sorreggevano i cavi. Il grande spiazzo che  era rimasto faceva comodo a noi bambini di cinque, dieci anni per ritrovarsi lì a giocare con piccole palle o solo per rincorrersi, lontano dai pericoli  e dagli occhi dei grandi.  Mentre si stava  gettando sassi contro i resti di quei piloni, ci siamo accorti che, appena colpiti, producevano tutti un bel suono, ma diverso l’uno dall’altro. Invece di colpirli con i sassi, abbiamo incominciato a batterli con questi ed abbiamo scoperto che potevamo imitare il suono delle nostre campane o, ripetendo solo tre note, quella ninna nanna che ci cantavano le nostre mamme. (La trascrivo in fondo a questa storiella). Era come un potersi inventare anche nuove melodie e per noi niente era più bello! Siamo diventati poi più grandi ed un giorno ci siamo accorti che a qualcuno aveva fatto comodo tagliare fino a raso terra il resto di questi piloni  per venderli ad uno  che veniva a raccogliere ferro vecchio. Il grande spiazzo è rimasto ancora lì per i piccoli fino a quando è stato occupato dai Bozzo che hanno costruito la segheria e più tardi la Metrica. Siamo rimasti in pochi ormai a ricordare “Le campane della telefrica” e forse ancor meno a rimpiangere quel modo di passarsi il tempo, allegri con niente, o col cantarsi la ninna nanna.

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Nina-nana, bon-bon bau (mi mi- re re, mi mi- do)
La campana da Lugau.*
Tre putèle sul balcon,
una lava, una stira.
Una fa i capèi de paia
A na canaia come (A na nome del bambino).

* Lugau: piccolo località della Val del Gail, subito oltre le montagne di confine, visitata dalla nostra gente quale unico Santuario Mariano delle vicinanze.

DON ALBERTO ERA PRE, MA LI “SAVE' FEI ANCHE TANTO AUTRO!”

Li avé tant bone cualitè, zrché d iutate, d feite gnì su bon e bravo,anch se chelch ota, dando rson ala Sacra Scritura ch dis: “Chi risparmia la verga, odia il sup figliolo”, l t tocé polito na man cula bacheta. Volé ese insoma n pare  ma d chei d n’ota: bon, giusto, ma severo. Ai greign e al fameie , s’al podé, li dadé anch l cuere. Pr duce  era anche l’unico punto d riferimento pr na richiesta d’intrvgnì lolo fin ch se spité ch rue n dotor.
Cuante ote è sto li a salvà dente e a cuanti à parù propio n so miracol! In doi case sei sto presente e ei visto chié ch à volù dì l so ordnà chié e com fei pr suprè lolo l prieme dificoltà. Laso da parte tance particolars pr evité d capì d chi ch s trata, ma cito l caso. Na todela s’è ritirefa pr feise l bagno. L’aga è sodàda cun fornel a gas ch se inpiza apena ch t mole l’aga. Porte e fonestra sarade, vasca ch s’inpis man man d’aga ciauda e la rieda inze. Pasa n tin d tenpo e ala mare i par ch sto bagno dure n tin masa e va a sincease. Urla d’aiuto. Dente ch core, fonestra e porta ch vien spalancade e la todela portada z canbra. Rua l pre.” Subito rspitazion e in piu masagiela così e così sui polmoni “ ordna.  Pasa minute e finalmente la rieda …piande. “Adeso rivstila e coverzela ben” l s racomanda e , saludeda la mare, duta in lagrme e  strmida, ne dis: “Vardé ben l camin ce no l funziona” e ne lasa zienza dì autro. Rua anche l dotor : “Meno male che siete intervenuti in odo giusto e che è’ andata bene”l  dis, ripartendo in presa pr fei anvulatorio a San Colò..- L scondo caso riguarda n riedo d scola ch , cul bob, se scontra cu na machina. Insangonò e fora d sé i lo porta a ceda e i lo bete sul sofà, in cusina. Tra i tance. ruo anche iè ch sei davdin d ceda. Lo vedo fermo, muto, cu n rspiro fiaco. So mare m domanda se è da muevlo, da dsdalo fora, da zrcà d feilo parlà. N m’é mai capitò d vede n caso così e i  digo che, fin che n vien l dotor, cul colpo ch ‘à ciapò è forse meio lasalo chieto. E’ cuas l doe e i cabaie m spieta dante l scole e rua cuas  corendo l pre ciamò da calchdun. Dis lolo:“ Fin che no riva l dotor, cerché de sveiarlo, parleghe e, in tuti i modi, tignilo più sveio posibil che no l se asopisa de novo”  lo racomanda a  chei che riempie la cusina.  Prima d dì via  n’ultma racomandazion “Che no capite pì’ che no me ciàmé chei de casa e che vegno a saver per caso! Un se salva anche per poce minute”. Don via duc doi in presa e su pla riva dl scole i digo:” Ho imparato una bella lezione di cui vorrò subito far partecipi quelli che mi aspettano in classe”.  Evidentemente bel duce savea dla dsgrazia; n’è sto difizil feighe na bela lzion sui pricoi dla strada e contai come  ch don Alberto s racomandé d conportase pr asiste  l’infortunò in  case conpagnr.

DON ALBERTO ERA PRETE, “MA LUI SAPEVA FARE ANCHE TANTE ALTRE COSE!”

Aveva tante buone qualità, cercava di aiutarti, di farti crescere buono e bravo anche se qualche volta, dando ragione alla Sacra Scrittura che dice: “Chi risparmia la verga, odia il suo figliolo”, ti accarezzava per bene una mano con la bacchetta. Voleva essere insomma un padre, ma  di quelli di una volta: buono, giusto, ma severo. Agli adulti ed alle famiglie, se solo poteva, lui offriva anche il cuore. Per tutti era anche l’unico punto di riferimento per una richiesta d’immediato intervento in attesa di un medico.
Quante volte è stato lui a salvare gente ed a quanti è proprio sembrato un suo miracolo! In due dei tanti casi io stesso ero presente ed ho visto che cosa ha significato il suo dare disposizioni sul che cosa fare e come fare per poter superare immediatamente le prime difficoltà. Trascuro i tanti particolari per evitare di far individuare le persone di cui si parla, ma cito il caso. Una ragazzina si è ritirata per farsi il bagno. L’acqua è stata riscaldata con un fornello a gas che s’accende appena tu fai scorrere l’acqua. Porte e finestre chiuse, vasca che si riempie man mano d’acqua calda con la ragazza che vi è entrata. Trascorre un po’ di tempo ed alla madre pare che questo bagno duri un po’ troppo e va a sincerarsi. Grida d’aiuto. Gente che accorre, finestra e porta che vengon spalancate e la ragazzina che è portata in camera. Arriva il parroco. “Subito respirazione  ed inoltre massaggiatela così e così sui polmoni” ordina. Trascorrono dei minuti e finalmente la fanciulla…piange. "Adesso rivestitela e copritela bene” lui raccomanda e, salutata la madre, tutta in lacrime e spaventata, ci dice: “Controllate bene il camino perché non funziona” e se ne va senza dirci altro. Giunge anche il dottore. “Meno male che siete intervenuti in modo giusto e che è andata bene” dice ripartendo in premura per far ambulatorio a San Nicolò. Il secondo caso riguarda un ragazzo delle scuole elementari che, con un bob, si scontra con una autovettura. Tutto insanguinato e privo di sensi, lo portano a casa e lo mettono disteso sul sofà, in cucina. Fra le tante persone accorse, ci arrivo anch’io che abito vicino alla sua casa, Lo vedo fermo, muto, con un respiro debole. Sua nonna mi chiede se  sia da muoverlo, da farlo svegliare, da tentare di farlo parlare. Non mi era mai capitato di vedere un simile caso e le rispondo che fino a quando non arrivi il dottoe è forse meglio lasciarlo quieto. Erano quasi le quattordici ed i miei alunni mi attendevano davanti alle scuole quando arriva, quasi correndo, il sacerdote chiamato da qualcuno. Dice subito: ”Fino a quando non arrivi il dottore, cercate di svegliarlo, parlategli ed, in tutti i modi, tenetelo più sveglio possibile che non torni nuovamente ad assopirsi” lo raccomanda a quelli che riempiono la cucina. Prima di andarsene un’ultima raccomandazione: “Che non avvenga più che io non sia avvertito da quelli di casa, ma lo venga a sapere per caso! Uno si può salvare anche per soli pochi minuti!” Ce ne andiamo via tutti e due in fretta e salendo l’erta delle scuole gli dico: ”Ho imparato una bella lezione di cui voglio subito far partecipi quelli che mi stanno aspettando in classe”. Evidentemente tutti ormai erano al corrente della disgrazia; non mi è stato difficile far loro una bella lezione sui pericoli della strada e raccontar loro cpme don Alberto raccomandava di comportarsi per assistere l’infortunato in simili casi.

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I   COSCRITE

Era senpro l’ocasion dla vita, pr ogni doign, chela d fstegié la coscrizion. T la spitéa come l segno ch t’era gnù on e t la vdéa da lontan come n traguardo ch ‘era parù senpro ncamò lontan..E po’ gné cal dì! L mare te avé parciò n vstì e biancaria nete e l scarpe da festa cu la spranza che in cal dì n’al pioia parchié ch dovè dorale a dì’ du pal Col di Morte. Solo tanto pì’ tarde è sto posibil feise portà fin a Sa Stefi su n cer u na lioda e, ncamò dopo, su n motocaro. L coscrite parcea fior d carta pr infiodrai u pr ablì l local gno ch t dea dadsera a balà. Fol, basoign, mandolins e chitare conpagné i coscrite pl strade dal paese e, zli ostarie, s fadé sintì com sfondo al canzon ch duce ciantea. La pì’ ciantada era: “Machinista de Calalzo, meti oio nei stantufi, chè de naia semo stufi e a casa volemo andar”, ma chesta era anche la manco adata parchié ch d naia n i avé fato nanch na dì! Gno che i fadé la Visita d Leva t cetea anche chei ch vendea bi fazlete da ciò, cun disegnede fiore, stele alpine e soralduto” W la clase…”che era chela d l’an d nasita di coscrite. Era usanza che chese conpres tance fazlete cuante ch’era l coscrite e così ognuna d’ele avé n bel rcordo d cla dornada spzial ch luere avé vivù. D rado capité ch n fos duce  “abile o revidibile” e nel caso ch calcdun gnes  ”scartò” l malelenghe avé d chié parlà zienza inveze pnsà al preocupazion ch nasé zl fameie, Solo tanto pì’ tarde a calcdun à scomnzò a n dspiasì de n dì’ a fei la naia e pì’ d’un inveze à anch zrcò d feise pasa pr malò pur d sta a ceda, lorà e betse via n franco. Cuan ch po’ è ruede i tenpe dla gran miseria dal dopo guera e l’Italia n podé avei pì’ d tance d soldade, è tanto canbiede l robe che pì’ d na fameia prié l pre da bete d medo l Vesco pr che i tola n fi sot li arme. Chesto à intersò soralduto l clase dal ’26 al ’30 e pì’ d’un è riusù a bete l stelete cuas com rgalo pla fameia. L pasà dal tempo e nueve disposizion à portò a ese magiorene bel a 18 ane. Cul machine l coriere a disposiziòn n s dea pì’ a pe pal Col di Morte, ma su auto inbandierade, piene d fiore e d musica. La festa dla coscrizion fnia cu n’inpegno: cetase omi e tode pla Purità, in otobre, pr portà in porzsiòn la Madona. La tradizion continua, ma ades i coscrite n’è pì’ tance e scueign domandà aiuto a chei dl clase inante parchié Madona e trono è psante e. pr d pì’, l paese s’è tanto slongiò ch la porzsiòn  inpiega tanto pì’ tenpo a travrsalo.

I COSCRITTI

Era sempre l’occasione della vita, per ogni giovanotto, quella di festeggiare la coscrizione. Te la attendevi come il segno che eri diventato uomo e te la vedevi da lontano come fosse un traguardo che ti era sembrato sempre ancora lontano. E poi giungeva quel giorno! Le madri ti avevano preparato un vestito e biancheria puliti e le scarpe usate per le giornate festive, con la speranza che in quel giorno non piovesse perché le avresti dovuto usare per scendere attraverso il Col dei Morti. Solo molto più tardi è stato possibile farsi portare fino a Santo Stefano su di un carro o su di una slitta ed appena in tempi ancora più recenti, su di un motocarro. Le coscritte preparavano fiori di carta per foderarli o abbellire il locale dove di sera saresti andato a ballare. Fisarmonica, chitarre, mandolini e violoncelli accompagnavano i conscritti per le strade del paese e, nelle osterie,  si facevano sentire come sfondo alle canzoni che tuttti cantavano. La più eseguita era: “Macchinista di Calalzo, metti olio negli stantuffi, perché di servizio militare siamo stufi ed a casa vogliamo andar”, ma questa canzone era anche la meno adatta per la circostanza perché di servizio militare questi coscritti non ne avevano fatto neppure un giorno. Dove veniva fatta la visita di Leva, trovavi sempre anche quelli che vendevano dei bei fazzoletti da mettere in testa, con disegni di fiori, stelle alpine e soprattutto con la scritta: ”W la classe….” Che era quella dell’anno di nascita dei coscritti. Era usanza che questi comperassero tanti di questi fazzolettoi quante erano le coscritte e così ciascuna di loro avrebbe conservato un bel ricordo di quella speciale giornata che i loro coetanei avevano vissuto. Raramente capitava che non tutti venissero dichiarati “abili o revidibili” e nel caso che qualcuno venisse dichiarato "scartato”, le malelingue avevano di che parlare a lungo senza invece pensare alle preoccupazioni che si sarebbero create nelle famiglie. Solo molto più tardi a qualcuno è incominciato a non dispiacere di non andare a prestare servizio militare e più di uno ha invece cercato di starsene a casa, lavorar e risparmiarsi qualche lira. Quando poi sono giunti i tempi della grande miseria successiva al dopoguerra ed all’Italia non era concesso di disporre di più di un certo quantitativo di militari, le cose si erano tanto cambiate che più di una famiglia era costretta a pregare il parroco di far intervenire il Vescovo perché venisse accolto sotto le armi uno dei loro figli. Questa cosa ha interessato soprattutto le classi dal 1926 al 1930  e più di uno è riuscito a portare le stellette quasi come un regalo per la famiglia. Il trascorrere del tempo e nuove disposizioni di legge hanno portato ad essere considerati maggiorenni già a diciotto anni. Con vetture e corriere a disposizione non si scendeva più a piedi per il Col dei Morti, ma su automobili imbandierate, piene di fori e di musica. La festa della coscrizione terminava con un impegno: ritrovarsi uomini e ragazze per la festa della Purità, ad ottobre, per portare la Madonna in processione. La tradizione continua, ma ora i coscrittti non sono più tanti e si vedono costretti a chiedere aiuto a quelli delle classi precedenti perché Madonna e trono sono pesanti e per di più, il paese si è così tanto allungato che la processione impiega tanto più tempo per attraversarlo interamente.

  L   FIOR   D   FIàNDOLA

 L néve era cuas sparù sul vare d Ciorì e d Stonuégo.  Rstèa solo chèlc spiazùto gno che, pr i ultme vénte dl’inverno,  l se era imuciò, ma n al consrvéa pì cal bel bianco stricò d’asùro cuan c al sorotio t lo inpizéa d mil brilante tomade du da cal zielo imenso. Era in chi dis che i canaiute scomnzéa a biciase pr i pras in zèrca di prime fiore che sbocé fora tra li èrbute o,pì spèso ncamò,  pr pr dlibrase dal sarò dl céde u dla scola e,    pr luére,d suto era bel. Ma chié invece era pì bon  c giavà su da tera la bobluta d chi  ldiérs “Fior d fiàndola” ( i crochi), ntasli        tra l man e po’ mangiai? Così fadendo, s ruéa a coié e bète insieme n mazùto d chi fiorute cu l’intnziòn d portaili dopo a céda   e fèi contente l mare soralduto se s prvdéa   d rué da èle cul barghèse   sporce  d tera e d’aga. Ma cuan che s’ aprosiméa l’ora d tornà in paese – èra senpro pasò masa tenpo!- n’avòn pì l coraso d tignì chi fiore  in man: era gnude boconute d sèda ragrinzida, ziéza corpo, ziénza vita, sbiadìda, cun bruto odòr. La blèza d chi   fior d fiòndola n’avé durò na dornada, ma i ne avéa inpù l cuére  d’algrìa e i uéié d marvèia. Gnù pì gran, m’ero fata amiga na rieduta, bela, e senplice proprio com i fior      d fiàndola  sul vèrdse dla stasòn . M paréa anzé che cuas li suprès in dlicatèza e armoniosità. Avéa doi ociòne sbarazins che i te eDéa inze fin zal pnsiér. Uséa n vestituto ldier, cn cun duce i colors dl’arcobaleno, colors c contrasta cun cal profondo negro fiso di so ciavèi. La vdéo però solo d’istade, ma spitéo cun ansia c la tornès.  E pasàde po’ tance ane   inante d rivèdla parchié che ié m’ero alontanò da Danta. Cuan c la m sei rivista dante, inprovisamènte,, na sèra, m sei sintù la géza dinze d me e me à tornò a ciapà, con da pizal, cla disperazion che    me irigidìa cuan che d’inproviso mi inacordéo che i firo d fiàndola s’era duce secàde, siupéde, zienza vita. Ma gno èrla    la  riéduta d’inclota? Dante d me. La imagine d na todéla auta, alanpanàda, che s tignìa in pés cun fadìa, paurosa prfin dna sofiéda d vénto. I so doi ociòin s pardéa   sot  de n puce d ciavèi zienza color. Solo   la os, c s’èra ridota a n sofio, mantignìa ncamò algo d vivo e d bél…. Puéce domande e risposte curte; fatse l’un   l’autra.  Ei sintù chiaramènte che era n saludo d’adìo; che n se sarone mai pì  riviste su sta tera e me à manciò anche l coraso d domandaighi se l’avè avù l desiderio d tornà ncamò a Danta. Se son strènte l man; pian pian; cuas a sfiorasle  pr n fèise mal, come c fadòne cuan c l’era la mi pizla, béla come l fior d fiàndola;  cuanc la me era stada cusì cara e c la mi luminéa momènte dla mi fanciulèza. L nostr man, giazàde, se à strènto n’ultma ota e ilò, in    cal momènto, m’è tornò dante, ciaro, l véciò dito cuan t’avé d fronte na roba c s dsfadéa: “ ésse propio come n fior d fiàndola”; n sofio, na imagine vivente c sta pr dsfèise.

Incué, i mi pase n me porta pi’ du tra i fior d fiàndola d Ciorì e d Stonuégo! M resta  però dante vive, come n bél sogno, sfumò cul pasà dal tenpo;  c me torna etèrnamente nuévo, creator d strane e inprovise émoziòn.

IL  FIORE  DEL  CROCO  
                                                   
La neve era quasi sparita sui prati di Ciorì e di Stonuégo. Rimaneva solo qualche spiazzo dove, per gli ultimi venti dell’inverno, essa s’era ammucchiata, ma non conservava più quel bel bianco striato d’azzurro quando il sole te  lo accendeva di mille brillanti caduti da quel cielo immenso. Erano i giorni in cui  i piccoli iniziavano a buttarsi per i prati in cerca dei primi fiori che sbocciavano tra le erbette o, più spesso ancora, per liberarsi dal chiuso delle case e della scuola e, per loro, tutto era bello. Ma che c’era di più buono che l’estrarre dalla terra il bulbo di quei leggeri “fior di fiàndola (i crochi), pulirseli tra le mani e poi mangiarli? Così facendo, si giungeva a raccogliere e sistemare un mazzolino di quei fiorellini con l’intenzione di portarli successivamente a casa per far contente le mamme soprattutto se vi saremmo giunti con i calzoni lerci di terra e d’acqua. Quando però si appressava l’ora di tornarsene in paese non avevamo più il coraggio di tener quei fiori  in mano: erano divenuti una seta raggrinzita, senza corpo, senza vita, sbiadita, male odorante. La bellezza  di quei crochi non aveva durato una giornata, ma ci aveva riempito il cuore di allegria e gli occhi di meraviglia. Divenuto più grande, m’ero fatto amica una ragazzina, bella e semplice proprio come i crochi di primavera. Mi pareva anzi li superasse in delicatezza ed armoniosità. Aveva due occhioni sbarazzini che  ti penetravano fino nel pensiero. Usava un vestitino leggero, con i colori dell’arcobaleno contrastanti con il profondo nero fisso dei suoi capelli. La vedevo però d’estate, ma attendevo con ansia il suo ritorno.  Trascorsero poi anni, prima di rivederla perché mi ero allontanato da Danta. Quando mi riapparve improvvisa una sera, mi sentii il gelo dentro e mi riprese, , come da piccolo, quella disperazione che m’irrigidiva quando d’un tratto, intravvedevo i fiori del croco  secchi, sciupati, senza vita.    Ma dove era la bambina di quella volta? Innanzi a me l’immagine di una giovinetta alta, allampanata, che si reggeva  a fatica, timorosa di un alito di vento. I due suoi occhioni si perdevano sotto capelli senza colore. Solo la voce, ridotta ad un soffio, conservava ancora qualcosa di vivo e di bello…  Poche domande e brevi risposte; reciproche. Sentii chiaramente che era un commiato; che non ci saremmo più rivisiti quaggiù e mi mancò il coraggio di chiederle se avrebbe desiderato di ritornare a Danta. Ci stringemmo le mani, piano piano, quasi a sfiorarci per non farci male, come facevamo quand’era la mia piccola, bella come il fiore di Croco; quando mi era stata così cara ed aveva illuminato attimi della mia fanciullezza! Le nostre mani, gelide, si strinsero un’ultima volta e lì, in quell’istante, realizzai, il vecchio detto dinnanzi all’effimero  “Essere veramente come  un fior d fiàndola”:  un soffio; una immagine vivente al suo  crepuscolo.

Oggi, i miei passi non mi portano più tra i crochi di Ciorì e di Stonuégo! Mi rimangono innanzi vivi, come un bel sogno, sfumato nel tempo; ricorrente; eternamente nuovo; fonte di strane, inattese emozioni. 
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